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OPERA DI ROMA/ Muti seguace di Sordi per raccontare Verdi

mutiChiama in causa anche l’Albertone nazionale, ovvero Alberto Sordi in difesa della fedeltà al «testo» di Giuseppe Verdi, troppo spesso tradito «nel nome di un cattivo costume che porta il nome di tradizione». «Sono un suo seguace», dice Riccardo Muti concludendo con le immagini in bianco e nero del faccione di Sordi proiettate sul fondale del teatro, le quasi due ore di lezione, da solo, sul palco del Teatro dell’Opera spiegando con la simpatia trascinante, e la maestria, l’Ernani ad una incantata platea di oltre 1.500 studenti dei conservatori tra i quali però sedeva anche il Ministro dei Beni culturali e del Turismo Massimo Bray. Ministro che, mentre si aspettava l’inizio della lezione di Muti, si è intrattenuto con il sovrintendente Catello De Martino, chissà forse per parlare delle voci di tagli ai finanziamenti dello storico teatro che saranno il nodo del prossimo Cda del 4 dicembre, che vede anche lo scadere del mandato dello stesso De Martino. Ma l’attualità stasera è lontana dalle parole di Muti, che al Costanzi accenna solo – e chi vuole capire capisce – per dire che quello in cui parla «è il teatro che ha visto nascere la Tosca e la Cavalleria rusticana». O quando parla della scarsa attitudine di Verdi per la professione di deputato, e legge la lettera in cui il grande musicista si preoccupa delle sue ripetute assenze in parlamento «per qualcuno forse dovrebbe essere un esempio», chiosa. O ancora quando torna a tuonare contro «certe regie di oggi che sono ad alta demenzialità». Ma soprattutto Muti racconta Giuseppe Verdi, «che è un classico come Mozart e con lo stesso rispetto va considerato», nella «fedeltà» ai testi che raccomanda, difendendoli anche dalle libertà interpretative dei cantanti. La musica come opera d’arte e Verdi come Michelangelo, Leonardo, Brunelleschi, genio nazionale «italico» che lui come «un architetto, un ingegnere va a costruire nella composizione, ma quello che c’è dietro rimane incomprensibile a tutti». Così l’Ernani che metterà in scena il 27 novembre inaugurando la stagione dell’Opera, e «che non va letto con gli occhiali e l’abito scuro di chi si crede esperto», ma che va vissuto con l’umanità del compositore che Muti fa scoprire attraverso la lettura delle lettere di Verdi. Verdi che dà dello spilorcio all’impresario, del «mona mona mona» al librettista, che protesta con chi gli regala le ostriche avariate – ma poi ne chiede altre da regalare ad una signora – e sottolinea parlando della Traviata «che una puttana è sempre una puttana», contro le interpretazioni che quasi la santificavano. Ernani, la quinta opera di Verdi, andata in scena per la prima volta a Venezia nel 1844, è la quintessenza della semplicità di Verdi «che è essenzialità». Presenta i personaggi Muti – Ernani, Elvira, Silva, Carlo V – attraverso la voce dei cantanti, uno dopo l’altro, alternando sorrisi e musica sublime. Rivela «di aver scoperto qualche giorno fa che il coro dei ‘banditelli allegronì dell’Ernani è diventato uno dei pezzi d’obbligo del coro dell’Armata rossa». Scherza anche sulle discussioni per cambiare l’inno nazionale , su Verdi e Mazzini o Cavour «che pensavamo fossero santi e poi abbiamo scoperto attivi, molto attivi», tanto che l’appellativo di ‘padre della Patrià forse dipende dall’aver lasciato figli per tutta la penisola..«. Per Muti »Verdi è un vero italico, in tutte le sue manifestazioni, anche di semplice umanità«, per lui Verdi »è il più nobile, il più aristocratico dei nostri musicisti e niente ha a che vedere con il becerume«. Va rispettato, »facciamo come con Mozart: chi cambia una nota viene fucilato«. Scherza ovviamente Muti, dispiaciuto per come è andata sprecata l’occasione del bicentenario »e voi siete giovani, ma io non credo che vedrò un’altra occasione così«.

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