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Se Marino ascoltasse i romani…

Le utopie del sindaco, le esigenze della città, i soldi buttatu, l'operazione Fori e la Nuvola di Fuksas

Colosseo-1-300x255Sarà un giugno rovente, quello che ci aspetta; e non si pensi alla temperatura atmosferica. A renderlo incandescente sono i “regolamenti di conti” che ci saranno in Campidoglio tra i partiti che sostengono la Giunta di Ignazio Marino, logica conseguenza di contrasti sui quali la prova di forza finale è stata rinviata a dopo le elezioni europee soltanto per calcolo, per non scaricare sul voto per il Parlamento di Strasburgo – con il rischio di “andare a sbattere” – il malcontento provocato nei cittadini da una gestione della Capitale che continua ad essere confusa, piena di contraddizioni e inefficiente.  Per colpa del Primo Cittadino, il “marziano” in bicicletta, ovviamente. Ma anche per l’incapacità del partito che è l’ “azionista di maggioranza” della Giunta, cioè il Partito Democratico, di interpretare le aspirazioni della città e di dare risposte alle aspirazioni dei romani. Un partito da mesi sul punto di scoppiare, diviso al suo interno, con i riformisti “renziani” in crescita ma non ancora capaci di rottamare la nomenklatura da anni alla guida del partito, che si oppone o cerca di rallentare il cambiamento che per l’ex sindaco di Firenze è l’unica via per salvare l’Italia, e con essa Roma. Il “mezzogiorno di fuoco” si verificherà appunto in giugno, quando si discuterà il bilancio 2014. Il Sel di Nicky Vendola (rappresentato nella Giunta dal vicesindaco Luigi Nieri) metterà allora l’altolà all’eventuale cambio di linea del Pd romano minacciando di far cadere il governo della città; sfida alla quale pare che il sindaco voglia rispondere con un nuovo tentativo (dopo quello fallito ad inizio mandato) di cooptare nella maggioranza i rappresentanti del MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Fantapolitica? Difficile dare una risposta certa. Nemmeno gli addetti ai lavori, cioè i politici, sembrano capire dove si sta andando. Meno di tutti nel Pd. Fino alle primarie che hanno portato Renzi alla segreteria nazionale del partito, i dirigenti del partito democratico romano erano tutti schierati al fianco di Bersani e D’Alema, cioè contro l’ex sindaco di Firenze. Da quando quest’ultimo è a capo del partito, (quasi) tutti dicono ora di lui che è il migliore, “viva Renzi”. Una conversione a prima vista troppa rapida e, per molti, sospetta.  E soprattutto in aperto contrasto con l’atteggiamento dei militanti, che  sembrano invece più aperti al nuovo, anzi sono loro i chiedere cose nuove. L’ex senatore Lionello Cosentino, segretario cittadino, cerca di fare una sintesi delle due posizioni, smorza i contrasti, insiste sull’unità del partito. Ma anche lui, alla domanda se per il Comune di Roma si voterà nel 2015, cioè in anticipo, dà una risposta che è piena di incertezza: “spero di no…”. Oltre non si spinge; del resto come potrebbe, con alle spalle un partito con due teste ciascuna delle quali è ostile all’altra? E così non resta che registrare, come in una guerra d’altri tempi, la posizione sul terreno. Da una parte i riformisti renziani, appoggiati dai dalemiani (ma guarda un po’: il rottamato Massimo D’Alema che dà una mano al suo rottamatore?) e dall’area Dem dei popolari ex democristiani. Dall’altra il vecchio apparato del Pd Romano, quello che fa capo a Cosentino e che ancora non troppi anni fa “governava” di fatto la capitale (e oggi è rappresentato dagli Zingaretti e dai Bettini…). Fuori dal Pd, ma spina acuminata sul suo fianco sinistro, un terzo protagonista: il Sel che, piuttosto di aderire ad una prospettiva riformatrice,  minaccia di far saltare tutto.

A questo stato di cose si è giunti attraverso il sovrapporsi nel Pd di lotte interne che si sono accentuate quando gli elettori hanno cominciato a vedere nei partiti una delle cause del triste stato in cui si trova non soltanto Roma ma l’intero paese. A livello nazionale, Renzi sta cercando di salvare il Pd presentandosi come portatore della medesima protesta che è la bandiera del M5S e, soprattutto, con le proposte costruttive che Beppe Grillo non è ancora stato capace di proporre. Allo stesso modo di Renzi si presenta, sostanzialmente, anche Ignazio Marino. Anche lui più che ai partiti guarda, o almeno dice di guardare, ai cittadini. Solo che tra i due, Renzi e Marino, c’è una grande differenza: il primo, a prescindere da quali saranno i risultati della sua azione, è indubbiamente un leader; Marino non ancora. Ciò che più ha colpito, nel suo modo di fare, è stato fino ad oggi l’incertezza. Le sue “gaffes”, il suo “zig zag” programmatico sono stati interpretati da più d’uno, all’inizio, come una tattica per saggiare gli atteggiamenti degli altri partiti. Sembrava che l’Americano/e/o il Marziano volesse lavorare in tandem con Renzi. Invece Marino non ha minimamente tentato di fare della Capitale la “vetrina” della politica riformista del Pd, un obiettivo che avrebbe potuto rafforzare vicendevolmente il presidente del consiglio e il sindaco di Roma. Al contrario, chi frequenta Renzi lo definisce spesso “seccato” e “irritato” per la gestione confusionaria della Capitale, che lo ha  tra l’altro costretto – nel tentativo di non compromettere il risultato delle elezioni europee – a venir meno ai suoi principi di sana gestione delle città, prima con l’adozione del “decreto Salvaroma”  e poi con il via libera al pagamento del salario accessorio ai 25.000 dipendenti comunali.

“Certo, così non può andare avanti” avrebbe detto Renzi ai suoi collaboratori riferendosi ai “pasticci” di Marino il quale, pur sapendo dall’inizio che il salario accessorio era fuori legge, non ha fatto nulla per mettere ordine nella giungla retributiva capitolina. Il premier, però, ha intanto dovuto dare il via libera al pagamento, perché dietro ai 25.000 dipendenti comunali ci sono 25.000 famiglie i cui componenti votano. D’altra parte, anche quando Marino ha voluto “fare contento”, o al limite, “non scontentare” il presidente del consiglio, lo ha fatto in maniera confusa. E’ il caso dell’intervento sull’Acea per riformarne il consiglio d’amministrazione e nominare il nuovo vertice. Il sindaco di Roma ha fatto tutto da solo, andando a scegliere il nuovo amministratore delegato in quel di Firenze – Alberto Irace, che ha lavorato con Renzi ai vertici di Publiacqua -, designando come presidente Catia Tomasetti su raccomandazione dell’eminenza grigia del premier, il sottosegretaro Delrio e accontentando poi il sottosegretario Legnini con la scelta di Elisabetta Maggini, Angelino Alfano con quella di Franco Paparella e Enrico Letta con quella di Paola Profetta. Scelte che hanno irritato il Pd romano, che nel nuovo cda dell’azienda non ha più alcun consigliere di riferimento. I così i democratici hanno fatto in modo che avessero ampia eco i precedenti di Irace, in particolare l’avviso di garanzia da lui ricevuto negli anni scorsi per irregolarità quand’era a Publiacqua. Tutte polemiche comunque tacitate sul nascere perché, come detto, ci sono in prospettiva le elezioni; ma che riprenderanno forza dopo il 25 maggio per cristallizzarsi poi nella discussione sul bilancio 2014. Ad oggi non si conosce il fondamento delle voci relative al tentativo di Marino di compensare l’eventuale uscita dalla Giunta dei consiglieri di Sel con l’ingresso di consiglieri grillini. Nel giugno dello scorso anno Grillo aveva messo il veto; ma oggi anche Grillo sembra cambiare strategia, visto che aveva detto che non avrebbe mai partecipato ad un talk show della Rai e invece ora va a Porta a Porta. Se il progetto di Marino fosse reale, la sua attuazione dipenderebbe ovviamente da Grillo e da Renzi, anche lui disponibile a mettersi con chi vuole le riforme, grillini compresi. Ma, come detto, il futuro dipende dai risultati del 25 maggio.

Carlo Rebecchi

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