Vetrata de La carta del lavoro, al via il restauro dello scalone di Sironi
– Le monumentali scenografie dominate dall’elemento architettonico, le vedute di periferie desolate e desolanti, i lavoratori possenti intenti a forgiare il futuro, ma anche le penitenti, le montagne le nature morte: l’arte intrisa di dramma di Mario Sironi torna a Roma (dopo un’assenza di vent’anni) per la grande mostra allestita da domani all’8 febbraio negli spazi del Complesso del Vittoriano. Esposte circa 90 splendide opere che, dagli esordi simbolisti e divisionisti, passando per il futurismo e la metafisica, fino alla pittura murale e agli ultimi cicli delle Apocalissi, raccontano l’intera parabola creativa di questo straordinario maestro, penalizzato in vita e dopo la morte dalla sua militanza fascista. Presentata oggi alla stampa, ‘Sironi 1885-1961’ è stata curata (con la collaborazione dell’Archivio Sironi di Romana Sironi) da una delle massime esperte dell’artista, Elena Pontiggia, che è riuscita ad allestire una bellissima selezione di capolavori, capace nel suo insieme di testimoniare sia l’evoluzione stilistica sia il portato morale che inscindibilmente la sottende. Dalle numerose opere concesse in prestito da musei e collezioni private, emerge infatti con chiarezza quanto veritiera fosse stata una dichiarazione di Pablo Picasso, secondo cui «avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto». Definito anche un ‘notissimo sconosciutò, Sironi ha pagato da subito una passione politica, del resto lontana da ogni propaganda, che l’ha condannato a una sorta di limbo, poco studiato e altrettanto poco esposto. La mostra del Vittoriano (e il 10 ottobre a Milano, a Palazzo Cusani, se ne aprirà una incentrata sul cartone preparatorio della vetrata della Chiesa dell’Annunciata dell’Ospedale Niguarda Cà Granda) rende dunque conto degli ultimi decenni di studi, del faticoso sforzo della nipote Romana di sistematizzare un immenso archivio, nonchè dei dipinti di epoca giovanile, ispirati ai movimenti simbolisti e al Liberty che poi detestò per il resto della vita. «Non sembra neanche la sua mano», dice la Pontiggia che ha portato per la prima volta all’attenzione del pubblico una serie di piccoli dipinti provenienti da raccolte private. Del resto, fin dalla giovinezza è percepibile, in un’opera come ‘La madre che cucè (1905-1906), il suo profondo anelito al costruire, del quale permeerà la sua produzione, fino alla morte. Sebbene di ispirazione divisionista, il quadro, aggiunge la curatrice, presenta una pennellata dalla linea ininterrotta, come se già allora la sua tensione etica avesse la meglio sulla suggestione estetica. Avvicinatosi nel 1913 al Futurismo, grazie anche all’amicizia con Boccioni, diventa ben presto il pittore-architetto per il quale, sempre e comunque, «costruire è necessario». Ogni sua opera racconta questo processo, che lo fa aderire al movimento di Marinetti nonostante il suo «fortissimo innamoramento» per il classico, per l’antico. È il dinamismo plastico dei futuristi ad attrarlo, spiega la Pontiggia, proprio perchè lo individua quale espressione di costruzione. La macchina raffigurata in un paesaggio urbano, però, «non è velocità, è volume», come i camion massicci nel centro delle strade. La stessa visione del mondo lo introduce nella poetica metafisica, alla quale si avvicina nel 1919. Ecco ‘La lampadà, in cui Sironi costruisce una realtà che, invece di oltrepassare il dato fisico, «precipita dentro le cose» e mette al centro della scena un manichino oltremodo plastico e drammatico. Trasferitosi da Roma a Milano, in un momento per lui difficilissimo, l’artista inizia a dipingere le periferie, incredibili paesaggi urbani stagliati contro un cielo cangiante, in cui si esprime la durezza della vita. «Tragico, ma mai disperato», prosegue la curatrice, quelle periferie grondanti solitudine sono però forme salde «che danno un senso di eternità laica». Così come i suoi monumentali lavoratori, ben lontani dalle celebrazioni fasciste, sono figure possenti e arcaiche, capaci di costruire, a fronte di fatica e asprezza, un’immagine di grande energia. La sala centrale del Vittoriano ospita le opere monumentali, i cartoni preparatori per ‘L’Italia tra le Arti e le Scienzè, a documentare la fase della pittura murale, che Sironi abbraccia nella convinzione che l’arte dovesse essere fruita da tutti . Una spazialità quella dell’affresco che manterrà anche nel dopoguerra, quando torna al cavalletto e il pessimismo incrina ulteriormente il senso di tragedia. Per finire alle Apocalissi, in cui a dominare è il senso di impotenza. Il senso del costruire però permane, non più appannaggio di un’umanità ormai tracollata, bensì lascia la mano alla natura, alle immani montagne che danno, ancora una volta, la dimensione dell’eterno.
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