Festival di Roma, in un documentario gli Schindler italiani | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Festival di Roma, in un documentario gli Schindler italiani

Nella giornata in cui ricorre il 71/o anniversario della deportazione degli ebrei di Roma (16 ottobre 1943), al Festival internazionale del Film debutta in anteprima europea, come evento speciale, My Italian Secret – Gli eroi dimenticati, il documentario di Oren Jacoby sui tanti italiani che durante la seconda Guerra Mondiale hanno rischiato la vita per nascondere e salvare gli ebrei dalla deportazione nazista. Sono in corso trattative con luce Cinecittà per la distribuzione in sala, e con la Rai per la messa in onda. Fra le storie nel film, c’è anche quella del campione di ciclismo Gino Bartali che ha contribuito alla salvezza di centinaia di persone, trasportando nella canna della sua bicicletta i documenti falsi che avrebbero permesso loro di scappare. A raccontare l’impegno di Bartali (che non ha mai voluto parlarne, perchè come ripeteva «il bene si fa ma non si dice») nel documentario c’è il figlio ottantenne del ciclista, Andrea Bartali, che oggi a Roma, probabilmente per la stanchezza e l’emozione, ha avuto un malore ma si è rapidamente ripreso. L’idea del film «mi è venuta dopo aver letto un articolo del Wall Street Journal nel 1993 in cui si parlava dei migliaia di ‘Schindler italiani, che avevano nascosto e salvato gli ebrei – spiega il produttore esecutivo e finanziatore del progetto Joseph Perella – Da italo-americano ho pensato fosse necessario raccontare questi eroi prima che non ci fossero più testimoni». Perella ha coinvolto nel progetto il documentarista Oren Jacoby, candidato all’Oscar nel 2005, per Sister Rosès Passion. «Mentre nel resto d’Europa l’80% degli ebrei non è sopravvissuto, qui l’80% si è salvato. Credo che gli italiani abbiano reagito diversamente per il loro spirito, il loro individualismo e la loro generosità» dice Jacoby. Per il regista, Bartali «è come una star del cinema, un incrocio tra Babe Ruth (il leggendario campione di baseball, ndr) e Clark Gable. La cosa più straordinaria era la sua modestia, il modo un pò ironico di vedere se stesso e il mondo, che l’ha anche portato a non voler mai parlare di quanto avesse fatto». Fra le altre storie del film, quella di Giovanni Borromeo, primario durante la guerra all’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, che nascose centinaia di ebrei inventandosi per ricoverarli una malattia ad hoc, il morbo di K. «Mio padre – dice il figlio del medico, Pietro Borromeo – da scienziato diceva che esiste una sola razza, la razza umana». Secondo la scrittrice Gaia Servadio, che da bambina, durante la Guerra con la sua famiglia aveva potuto nascondersi nelle Marche, nel Palazzo della Marchesa Gallo, «questo documentario è un grande insegnamento anche per l’oggi, basta guardare a quello che succede in Medio Oriente. La fiamma del razzismo continua a bruciare».

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