Il teatro a Rebibbia e i detenuti si ispirano al Macbeth | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Il teatro a Rebibbia e i detenuti si ispirano al Macbeth

– A Rebibbia il teatro ha da tempo un suo ruolo significativo. Mentre il gruppo delle detenute attrici della sezione di massima sicurezza cercano, per il progetto «Le donne del muro alto» da realizzare con l’associazione Ananke, di trovare fondi (25 mila euro entro fine anno per non perdere anche il finanziamento della Regione Lazio) si annuncia, per domani pomeriggio nel teatro della casa circondariale in Via Majetti 70, un incontro-dibattito col pubblico e rappresentazione di «Macbeth, ovvero nessun dorma» con la regia di Giancarlo Capozzoli e la partecipazione di 30 detenuti e delle attrici performer Lucia Bricco, Pamela Del Grosso, della cantante lirica Irene Morelli, e dei musicisti Gino Maria Boschi, Marco/Ubik Bonini più l’operatrice video Martina Ghezzi. Questa messa in scena è il risultato di un laboratorio teatrale culturale iniziato a ottobre del 2013. L’idea di base è quella di promuovere dei percorsi creativi-alternativi intervenendo sulla marginalità, sull’esclusione comunicativa e relazionale determinate dalla carcerazione, al fine di un recupero e un reinserimento sociale delle persone detenute. «L’incontro con il teatro, e con l’arte in generale, può essere un modo per riavvicinare i detenuti/e ai principi fondamentali della vita, realizzando una rivalutazione dei valori, che per motivi diversi si sono persi di vista», spiega Capozzoli, citando un’affermazione di Antonin Artaud: «nella vita il teatro si sforzerà di esprimere tutto quello che la vita dimentica, dissimula o è incapace a esprimere». Lo spettacolo «Macbeth, ovvero nessun dorma» prende solo spunto dal testo classico shakespeariano, scelto perchè attraverso la poesia di Shakespeare si vuole tentare una riflessione sull’ambizione umana e sulle sue conseguenze. Si costruisce così un testo plasmato dalle esigenze e dalla personalità di ciascun attore, un testo in continua trasformazione e rielaborazione non solo da parte del regista ma degli stessi interpreti, che vi aggiungono spunti interpretativi, anche a partire dall’uso del proprio dialetto o lingua di appartenenza. «Un altro aspetto molto importante è la relazione che si instaura all’interno dell’istituzione carceraria tra gli attori-detenuti e il regista, gli attori e i collaboratori esterni che partecipano e organizzano i laboratori – racconta il regista – Si cresce insieme, e l’arricchimento è reciproco, ci si mette in relazione, e ci si confronta sulla vita. Ognuno dona ciò che può, i detenuti mettono a disposizione il proprio tempo, che non finisce mai, i loro corpi e le diverse esperienze, gli esterni la loro professionalità, la loro esperienza personale, il loro essere ‘liberìe questa rappresentazione finale anche favorisce una relazione tra il pubblico esterno e i detenuti».

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