La guerra di Libia arriva a Roma: in 2 si contendono l'ambiasciata | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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La guerra di Libia arriva a Roma: in 2 si contendono l’ambiasciata

La guerra di Libia, con le sue spaccature, le sue fazioni, la violenza e le fragilissime istituzioni, è arrivata anche a Roma. Come uno specchio fedele di quanto accade nel Paese nordafricano, due ambasciatori si contendono la sede diplomatica di via Nomentana. A suon di note verbali, ma anche di «calci, pugni e minacce». È accaduto anche in altre capitali, dove il governo insediato a Tobruk, e riconosciuto dalla comunità internazionale, ha voluto insediare i propri diplomatici e allontanare quegli ambasciatori sospettati di rispondere al governo «parallelo» legato ai Fratelli musulmani e imposto a Tripoli dalle milizie filo-islamiche. Ma il 9 marzo a Roma la disputa ha assunto l’aspetto di una «piccola guerra civile», come l’ha chiamata un funzionario. Quel giorno Azzedin al Awami, designato lo scorso novembre dal governo legittimo di Abdullah al Thani nuovo incaricato d’affari della Libia in Italia, si è presentato al cancello dell’ambasciata per prendere funzione. Forte della lettera del suo governo che nomina lui e rimuove l’attuale ambasciatore Ahmed Safar, insediatosi a Villa Anziani nell’aprile del 2014, prima delle elezioni del nuovo parlamento e prima della spaccatura che ha di fatto diviso in due la Libia. In quel momento Safar era fuori sede, e gli uomini della sicurezza non hanno fatto passare il diplomatico. Ne è nato un parapiglia, al termine del quale un ufficiale della sicurezza, vicino ad Al Awami, ha denunciato ai carabinieri del Nomentano di aver subito percosse, calci e pugni da tre connazionali, fino alle minacce: «Se ti vediamo ancora, ti uccidiamo. Attento ai tuoi figli!». Presentando il documento di accreditamento da parte della Farnesina in qualità di Ministro Consigliere, Al Awami è infine riuscito a entrare in ambasciata, dove è rimasto in un clima di forte tensione per quasi 12 ore, facendo telefonate e cercando di spiegare la sua posizione. Per poi uscirne in serata, «finchè non sarà chiarita la situazione». «È stato come un tentato colpo di Stato», ha detto all’ANSA l’ambasciatore Safar che dalla sua oppone il fatto che il governo italiano lo riconosce ancora come tale. «Io non sto nè con Tobruk, nè con Tripoli. Sono neutrale, lavoro per lo Stato e il popolo libici», ha spiegato, aggiungendo che sarà l’atteso – ma ancora lontano – governo di unità nazionale a decidere cosa fare di lui. «Safar non rappresenta più il governo legittimo della Libia», ha invece insistito Al Awami – ex vicepresidente del Congresso nazionale libico -, mostrando la nota verbale di Tobruk in cui si sottolinea che «lo Stato libico non assumerà la responsabilità di alcuna azione finanziaria o amministrativa intrapresa dal Signor Safar». Un pasticcio diplomatico insomma, che riflette in piccolo la situazione in Libia, al quale si aggiunge il problema dei finanziamenti all’ambasciata, che dopo l’episodio del 9 marzo è rimasta chiusa per una decina di giorni. Dalla nomina di Al Awami, tre mesi fa, il governo di Tobruk non manda soldi a Roma, lasciando diplomatici e funzionari – anche italiani – senza stipendio.

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