Belgi barbari e poeti in mostra al Macro | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Belgi barbari e poeti in mostra al Macro

«Sono un vecchio pellerossa che non camminerà mai in fila indiana», afferma Achille Chavèe dall’alto di uno dei muri delle sale in cui, al Macro di Via Nizza, è aperta da domani al 13 settembre la mostra «I Belgi, barbari e poeti», a sottolineare una singolarità, una individualità particolare e diversa, barbara e che non va in fila, rispetto all’arte e le ricerche del resto d’Europa e del mondo. «Sono tutti artisti che vanno a studiare all’estero che fanno il loro moderno Gran Tour, ma poi, tornando da Europa, America o Cina, si esprimono in modo individuale, con una propria singolare personalità – spiega il curatore dell’esposizione Antonio Nardone – Noi li abbiamo messi in fila, partendo dai maestri del novecento belga, da Ensor a Rops, da Delvaux a Magritte, per arrivare ai giovani e meno giovani ancora attivi, per scoprire il filo rosso della loro identità, geografica, etnica, psicologica, in cui c’è qualcosa appunto di barbaro, di non comprensione nel loro sguardo poetico da lontano». E cita a questo punto il ‘De Bello gallicò di Giulio Cesare dove si legge «Horum omnium fortissimi sunt Belgae» (Di tutti, i Belgi sono i più coraggiosì) a sottolinearne l’antico carattere intrepido e selvatico, libero da convenzioni e catalogazioni. Ecco allora che la mostra appare di grande eclettismo e, dopo le tele classiche di Fèlicien Rops (l’esemplare pastello «Poronokrates» e altre incisioni di fine ‘800), di James Ensor («Du rire aux larmes» del 1908), di Renè Magritte (l’olio «L’oracle» del 1931) e di Paul Delvaux (l’olio «Coversation» del 1944), ecco una trentina di artisti in cui sono echi di Burri e di Baj e del pop americano, opere materiche e concettuali, fotografie, video e installazioni, in cui, più che un carattere giocoso di ricerca, come potrebbe apparire a un primo sguardo, si avverte una malinconia profonda e spesso un senso tragico di decadenza e disfacimento o solo a documento dell’attualità che lascia i suoi segni anche sul passato, come sono segnati, istoriati i corpi di Cristo, crocifisso o deposto di Jean-Luc Moerman, foto modificate e derivate dai grandi modelli che vanno da Velasquez a Rubens, o ferite le sue Ostie da messa, con cuciture e filamenti rosso sangue. E ancora la grande, polverosa, come mummificata, bestia appesa e squartata di resina, legno e pelle di cavallo di Berlinde De Bryckere che apre la mostra o la sfilata di teschi neri in una serie di tele di Pascal Tassini, in cui vanno man mano disfacendosi, poi la bara costruita di circuiti stampati elettronici ricchi di led che si illuminano di Patrick van Roy o i due scheletri femminili di Federic Pennelle e Yannick Jacquet, vestiti di rosa che ballano il tango ( e questa musica sensuale, estenuata, drammatica si ode per tutto il percorso) montate su una base che gira per la sala evitando gli ostacoli sul fondo di una serie di incisioni in b/n animate da proiezioni luminose. Così si passa da una bacheca di insetti puntati col classico spillo tutti sul marrone di Vincent Solhead ai Messaggeri di morte di jan Fabre, colorite teste di gufi di materia tessile, accigliati, attoniti, per arrivare a una sorta di grande massa cerebrale di Koen Vanmechelen, che da vicino si rivela composta tutta di galline bianche e sul cui retro esce un lungo corno, sino a una scatoletta di ottone tipo sardine con piantata sopra una piccola croce e intitolata Il funerale del pesce di Pascal Bernier, come i tanti piccoli mostri colorati sulle pedane di un aereo ponteggio, acrilico su tela di Hell’O Monsters. Il problema, come proclama Marc Essenne da un’altra scritta, è che oggi «la realtà è sfuggente e l’arte può darle una certa accessibilità, se invece di provocare appagamento suscita disagio o paura».

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