Alt-J al Rock in Roma: caleidoscopio sonoro che ipnotizza | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Alt-J al Rock in Roma: caleidoscopio sonoro che ipnotizza

– Un’elettronica liquida e sinuosa, impastata di folk, rock, trip hop, ed echi di pastorali medievali e suggestioni dal lontano Giappone: un frullatore di moderna civetteria, quello degli Alt-J, che ieri sera hanno aperto l’edizione 2015 del «PostePay Rock in Roma», dopo essersi esibiti a Milano lo scorso febbraio. Il trio britannico, composto da Joe Newman (chitarra/voce), Gus Unger?Hamilton (tastiere) e Thom Green (batteria), è sbarcato nella capitale per presentare il secondo album, «This Is All Yours», pubblicato nel 2014 e chiamato a confermare il successo del primo lavoro in studio, «An Awesome Wave», che due anni prima li aveva imposti alla ribalta internazionale, nominato come «Best Alternative» ai Grammys 2015 e vincitore di tanti altri premi tra cui il Mercury Prize. Meno innovativo e potente dell’esordio, «This Is All Yours» ha conquistato comunque i cuori dei fan di questi tre giovanotti di Leeds con le facce da bravi studenti, che hanno aperto uno squarcio nell’alt-pop degli anni ’10. E Roma ha potuto apprezzare il meglio della loro produzione, in un concerto autenticamente live, con l’esclusivo utilizzo di strumenti elettrici e senza pre-registrazioni. La serata si illumina subito con «Hunger Of The Pine», primo singolo dell’album, cantilena ipnotica e sintetica che introduce all’universo lunare della band. Si prosegue con «Fitzpleasure», dove il tappeto sonoro degli Alt-J si srotola, sorretto da una ritmica più intensa e intrecci di chitarra e tastiere, avviluppati nella spirale vocale di intensa melodia con il timbro imberbe di Newman, sostenuto dal coro di Hamilton. Con «Something good» il sound si fa più frizzante e leggero, mantenendo l’impasto elettronico predominante pennellato dalle tastiere. Si cresce ancora e con «Left Hand Free» si vira sul rock, la chitarra prende il sopravvento e la voce si fa più sguaiata. Con «Matilda», arriva il primo vero boato delle migliaia di persone accorse al concerto: una canzone dolce sulla bambina protagonista del film Leon di Luc Besson, e dell’assassino che si prende cura di lei dopo che la sua famiglia è stata assassinata. «Tessellate» segna un ritorno ad atmosfere più introspettive e malinconiche, per poi passare alla cifra più autentica della band, «Every other freckle», dove il frullatore riprende a girare, con la batteria – senza piatti – che rulla, la chitarra che cadenza e la tastiera che dà il tappeto sintetico, mentre il gorgheggio del leader si fa sempre più virtuoso, a tratti ossessivo e allucinato. Si vira poi verso atmosfere pastorali, con «Taro», dedicata a Gerda Taro, partner di Robert Capa, che racconta la morte del fotografo di guerra ungherese nel 1954 in Indocina, dopo aver calpestato una mina mentre stava marciando con le truppe francesi. Nei bis si vola in Giappone, a «Nara», che costituisce il filo conduttore di «This is All Yours». A Nara «i daini vivono liberamente nei parchi», ed i toni si fanno più corali e nostalgici di una vita libera in mezzo alla natura. Si chiude con «Breezeblocks», con un ritorno all’oggi, al concentrato di synth, rock, folk ed elettronica che costituisce l’innovativo caleidoscopio proposto da questo trio di Leeds. Alt e J, del resto, se premuti insieme sulla tastiera di un Mac, determinano il simbolo «?». Che vuol dire cambiamento.

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