Lauryn Hill a Roma, tra prodigio e inquitudine | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
Direttore responsabile Giovanni Tagliapietra

Lauryn Hill a Roma, tra prodigio e inquitudine

Inquieta, agitata, senza pace. Lauryn Hill si presenta così al pubblico di Roma che, per il concerto-evento della prima delle due date italiane del Ms Lauryn Hill tour (la prossima il 20 luglio al Lucca Summer Festival), riempie la Cavea dell’Auditorium Parco della Musica come non succedeva da tempo. Capelli corti, orecchini vistosi, un abitino stretto in vita e largo sulle gambe, la cantautrice statunitense sembra una bambina insicura in cerca di conferme: esegue i brani iniziali del concerto seduta, con la chitarra sul grembo, si volta continuamente verso i musicisti della band per dare indicazioni, chiede più volte ai fonici di alzare il volume del microfono. Il chitarrista cerca di interpretare i suoi cenni nevrotici e gli spettatori pendono dalle sue labbra, attendono disperatamente un «la» per muoversi, cantare, emozionarsi. Niente: Lauryn Hill sembra quasi improvvisare e, soprattutto, sembra che il pubblico non la sfiori neppure, quasi stesse suonando in una sala prove. È con i primi pezzi hip pop delle origini del suo successo che il fenomeno americano abbandona la chitarra e inizia la sua lenta ascesa verso l’esplosione: continua a dirigere i componenti dell’orchestra con l’esigenza ossessiva di avere tutto sotto controllo; ma pian piano scioglie l’iniziale ingessatura e inizia a ballare, a far uscire potentemente la sua voce e a soddisfare, finalmente, l’anelito di un pubblico che non aspetta altro che il concerto inizi davvero. Il boato arriva con i brani che risalgono alla fine degli anni Novanta: da «Ready or Not» a «Fu-Gee-La» dell’album «The Score» dei Fugees (1996), da «Final Hour» e «Lost Ones» a un’incalzante «Ex-Factor» dall’album di debutto da solista «The Miseducation of Lauryn Hill», pubblicato ben 17 anni fa. Il crescendo continua con il passaggio dall’hip pop al raggae, quando Lauryn Hill interpreta ben tre brani di Bob Marley: una familiarità di sangue, oltre che artistica, visto che i suoi cinque figli sono nati dall’unione con Rohan Marley. Ancora cover con «Master Blaster (Jammin)» di Stevie Wonder e «Ìm feeling good» di Nina Simone, fino a far emergere, nitido, il calibro di sempre. Lauryn Hill non può non regalare al pubblico «Killing me softly» e chiudere con altri due brani che hanno consacrato la sua prodigiosa voce al successo: «To Zion», dedicata al suo primogenito, e «Doo wop (that thing)». L’esplosione della sua carica non basta, però, a farla sentire veramente presente. Tra lei e il pubblico un muro costante. Un unico sorriso, appena accennato, ai fan che, tendendo le mani e gli album da autografare, accompagnano la sua uscita dal palco.

email

Bisogna effettuare il login per inviare un commento Login