Bjork incornicia il dolore nella meraviglia | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Bjork incornicia il dolore nella meraviglia

Perfetta, chirurgica, di un’intensità fuori dal comune. Bjork riappare sul palco dell’Auditorium Parco della Musica di Roma dopo sette anni con una nuova performance. Non è un concerto ma un’opera d’arte e lei, con la sua voce celestiale, ne è la protagonista sulla scena come nell’aspetto più intimo e concettuale. Un abito rosso fiammante, calze a rete, un velo rosa attorno al collo, dello stesso colore delle scarpe, e una maschera sugli occhi: l’artista islandese cammina da una parte all’altra del palco e apre le braccia con un movimento che somiglia all’apertura alare di un falco. Tutt’altro che rapace, si confessa in tutta la sua fragilità, raccontando la rottura della sua storia d’amore con l’artista Matthew Barney, conosciuto nel 2001 e padre di sua figlia Isadora. La scaletta del concerto è incentrata, infatti, su «Vulnicura», ultimo album dell’artista la cui pubblicazione, programmata per marzo 2015, è stata anticipata di due mesi a causa di un’incontrollata fuga dei brani sul web. «Vulnus» (ferita), dunque, e «cura»: la regina del sound avant-pop trascina gli spettatori in un vortice che ripercorre il dolore, la disperazione e infine il faticoso rimarginarsi delle lacerazioni, mostrando l’aspetto umano di donna che la accomuna al pubblico, attraverso l’unicità del suo talento artistico. Non a caso, è la sola voce sul palco: non è accompagnata da cori nè dagli enormi strumenti sperimentali che hanno caratterizzato i suoi precedenti tour ma da un’orchestra d’archi vestita di bianco e da due musicisti, alle spalle, che curano percussioni e elettronica. Non le «perle» dei singoli di tutta la sua discografia ma l’epopea della sua desolazione, scandita da visual che ritraggono dettagli in primo piano dell’accoppiamento e della riproduzione di farfalle, insetti, rettili, quasi a voler mostrare la dolorosa complessità di una natura apparentemente ovvia. Il sound è più immediato rispetto ai precedenti lavori ma non perde quell’aura di sacralità propria dell’islandese: il pubblico ascolta con venerazione, esulta con trasporto tra un brano e l’altro e si lascia emozionare nei momenti più toccanti dell’esecuzione. Come nel grido di dolore di «History of touches», che Bjork canta con il solo accompagnamento elettronico, o in «Black lake»: «Ìm one wound, my pulsanting body suffering being» («Sono una ferita, il mio corpo pulsante è un essere sofferente»), canta l’artista, e solleva il microfono al cielo quasi fosse una preghiera, per poi abbandonarsi al ritmo incalzante delle percussioni. La magia esplode con gli effetti pirotecnici durante «Notget» e nella finale «Mouth mantra», che chiude in una nuvola di fumo un concerto-spettacolo che ha lasciato il segno nell’estate romana.

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