Marino si dimette: "Ho 20 giorni per ripensarci". Dai Fori agli scontrini la parabola del sindaco marziano | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Marino si dimette: “Ho 20 giorni per ripensarci”. Dai Fori agli scontrini la parabola del sindaco marziano

Commissariamento e voto in primavera: il futuro della Capitale dopo l'addio del primo cittadino, cacciato dal partito che lo aveva voluto sullo scranno più alto del Campidoglio. Il chirurgo, in una lunga lettera, lancia il suo allarme: "Spero non torni la mafia"

– Ha resistito finchè ha potuto. Asserragliato in un Campidoglio non più casa di vetro ma bunker dove consumare l’ultimo atto. Assediato da quel partito che neanche tre anni fa lo aveva portato trionfante a Palazzo Senatorio. Il fuoco, anzi, il bombardamento amico è stato letale per un Marino già fiaccato dal «casus scontrini». Alle sette e mezzo della sera Ignazio Marino non è più un sindaco. Tre assessori, ovvero i big della fase due Causi-Esposito-Di Liegro, li aveva già persi nel pomeriggio. L’appoggio di Matteo Orfini era scivolato via già ieri. I consiglieri Pd con i riottosi di Sel si erano ripromessi una mozione di sfiducia. E il fidato Alfonso Sabella, sempre iper combattivo, aveva sfoderato inediti toni dimessi e rassegnati. La giunta dell’ammutinamento, per chi c’era e la può descrivere, «sembrava il Gran Consiglio del 25 luglio». Marino è di fatto sfiduciato. «È meglio andarsene, così non si può», gli dicono i tre assessori spediti da Renzi a dare l’ultima chance all’irregolare Marino. Il sindaco pare non abbia battuto ciglio. Neanche un attimo di cedimento. Sguardo fisso davanti. Mai dare soddisfazione al nemico. Perchè è il nemico ora quello che Marino ha davanti. Altro che il Pd. «Le mie dimissioni non sono una resa- scrive nero su bianco il già ex sindaco Marino- e temo che dopo di me torni il meccanismo corruttivo-mafioso». Tagliente e per niente sconfitto. Anzi Marino lascia anche uno spiraglio. Che suona come un avvertimento. «Presento le mie dimissioni -scandisce- Sapendo che queste possono per legge essere ritirate entro venti giorni. Non è un’astuzia la mia: è la ricerca di una verifica seria, se è ancora possibile ricostruire queste condizioni politiche». Insomma chiama alle armi il Pd ricordandogli che lui ha strappato «il Campidoglio alla destra che lo aveva preso e per cinque anni maltrattato, infangato sino a consentire l’ingresso di attività criminali anche di tipo mafioso» e che il sistema corruttivo mafioso «senza di me avrebbe travolto non solo l’intero Partito democratico ma tutto il Campidoglio». Frangar non flectar. Che magari passa la piena. O forse no. Ma intanto il sindaco, che da giorni tace, è un fiume di parole in piena. «In questi due anni ho cambiato un sistema di governo basato sull’acquiescenza alle lobbies, ai poteri anche criminali -scrive- Tutto il mio impegno ha suscitato una furiosa reazione. Sin dall’inizio c’è stato un lavorio rumoroso nel tentativo di sovvertire il voto democratico dei romani. Questo ha avuto spettatori poco attenti anche tra chi questa esperienza avrebbe dovuto sostenerla. Oggi quest’aggressione arriva al suo culmine. Ho tutta l’intenzione di battere questo attacco e sono convinto che Roma debba andare avanti nel suo cambiamento». Insomma per Marino non è finita. La sua fedelissima Alessandra Cattoi, l’unica confidente di queste ore, è sulla stessa scia: «il cambiamento viene interrotto per logiche che non capisco». Gli altri, tutto il Pd, e anche Sel plaudono all’iniziativa «responsabile». E che da ieri hanno inseguito. Architettato, bramato. Forse estorto. Aveva iniziato Sel di mattina con un sibilante: «Il sindaco valuti se esistono ancora le condizioni per proseguire il suo mandato». Poi gli assessori renziani e i loro «così non va». Poi la ventilata possibilità di una mozione di sfiducia. Poi l’ultima ambasciata di Causi e Sabella spediti da Orfini a un Marino ormai in assetto bunker: «dimettiti». Marino capisce che non può subire l’onta della sfiducia, lui che è «stato votato dai cittadini». O peggio delle dimissioni della metà del consiglio comunale. Così lascia. Ma sembra lasciare a metà. Il suo gesto più che la fine potrebbe essere un altro inizio.

Dal «daje» della campagna elettorale ad un mesto «me ne vado». La parabola, breve e convulsa, di Ignazio Marino, sindaco marziano si spegne nel Dinnergate degli scontrini di cene dichiarate «istituzionali». Eppure era nata sotto l’egida di un rinascimento che Roma aspettava. Il sindaco in bicicletta, il sindaco dei Fori pedonalizzati, il sindaco outsider che doveva rilanciare la Capitale, è finito accerchiato dal suo stesso partito per un «affaire» di filetti e vini pregiati. E ora Marino lascia Palazzo Senatorio dopo appena 848 giorni e dopo neanche avere iniziato la «fase due», ultima concessione di Renzi per rianimare l’amministrazione del chirurgo. Tutto era nato nel giugno 2013 nel migliore dei modi, con una vittoria netta su Alemanno (con il 63%) e la promessa ai romani di «tornare a sognare». Il primo atto di Marino, allora ancora in bicicletta poi abbandonata per la scorta, furono i Fori senza auto. Una notizia che fece il giro del mondo e restituiva l’idea di una Roma nuova. Poi anche in seguito ad alcune incertezze, come le nomine subito ritirate per difetti patenti, l’idillio con la città si affievolì fino a precipitare con i fatti di Tor Sapienza nel novembre 2014, l’assalto razzista ad un centro di accoglienza in un pezzo di periferia desolata, lontana dai Fori Imperiali. Quella fu la prima volta di Marino in bilico. Poi arrivò il Pandagate, le multe per il permesso Ztl scaduto e per il divieto di sosta. Mai pagate e pagate solo a scandalo avvenuto. Arrivarono così i primi mal di pancia di un Pd che di lì ad un mese venne travolto da Mafia Capitale. Assessori, pezzi di amministrazione, il presidente del consiglio furono coinvolti dal tornado della Procura di Roma. Marino no, anzi, lui fu il baluardo contro il malaffare. Il Pd serrò i ranghi. Orfini, nominato commissario di un partito romano avvelenato, fece quadrato attorno al sindaco onesto e antimafia che volle accanto a sè come super assessore il cacciatore di mafiosi Alfonso Sabella. Arrivarono altri provvedimenti a loro modo storici nella gestione della capitale: via i camion bar dei Tredicine dal centro storico, stop alla discarica di Malagrotta del monopolista Cerroni, norme ferree per i cartelloni pubblicitari, guerra al tavolino selvaggio che deturpa Roma, giù il lungomuro abusivo di Ostia. L’idillio ritorna, si riaccende, sembra funzionare. Poi arrivarono i viaggi. Per i detrattori del sindaco, che intanto sembravano aumentare, quei viaggi sono troppi e intempestivi. Polemiche sulle vacanze americane mentre si lanciavano petali da un elicottero sul feretro di un boss Casamonica a Cinecittà. E soprattutto mentre il governo decideva, sulla scorta dell’inchiesta Mafia Capitale, che sì il municipio di Ostia andava sciolto ma il Campidoglio solo «sorvegliato speciale». Giorni duri per Roma che resta alla guida del vicesindaco Causi, chiamato da Renzi con Esposito e Rossi Doria, a lanciare la fase due. Poi l’ultimo volo di Marino in America, quello a Philadelphia per incontrare il Papa. Forse l’ultimo viaggio da sindaco. Una trasferta segnata da polemiche persino col pontefice («non l’ho invitato io, è chiaro?» disse Bergoglio sollecitato) e dal Dinnergate. Tra cene sospette e smentite di presunti commensali e ristoratori, l’atto di «trasparenza», come lo ha definito più volte lo stesso Marino, si è trasformato invece in un boomerang letale. Ieri la mossa a sorpresa di «pagare tutte le spese sostenute con la carta di credito del Campidoglio» per mettere fine alle polemiche. Non è bastata. Almeno non al Pd. Ora Marino paga molto di più.

– Con le dimissioni del sindaco Marino in Campidoglio si apre la stagione del commissariamento con il voto in primavera. Anche se, per legge, il sindaco ha 20 giorni di tempo durante il quale può revocarle. A disciplinare tutta la materia è il Testo Unico sugli Enti locali (Tuel), aggiornato dal Decreto legislativo 267 del 2000 che prevede tre strade in una vicenda come quella del Campidoglio. Oltre all’addio del sindaco, la mozione di sfiducia e le dimissioni della maggioranza più uno dei consiglieri capitolini. DIMISSIONI SINDACO – Le dimissioni del sindaco diventano esecutive dopo 20 giorni – lasso di tempo nel quale può revocarle -; a quel punto scatta la procedura di scioglimento del Consiglio comunale, con la sospensione di tutte le cariche istituzionali. Viene nominato un commissario – del rango di prefetto, nel caso di Roma – che porta la capitale alle elezioni. Il voto avverrebbe in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno 2016, in base alla Legge 120 sulle elezioni negli enti locali del 1999. A Roma ci sono i due precedenti delle dimissioni da sindaco di Francesco Rutelli nel 2001 e di Walter Veltroni nel 2008, entrambi per correre come candidati premier nelle elezioni politiche. MOZIONE SFIDUCIA – Il Consiglio comunale può votare una mozione di sfiducia al sindaco. Anche in questo caso l’amministrazione decade, viene nominato il commissario e si va comunque a nuove elezioni la primavera prossima. La mozione deve essere sottoscritta da almeno due quinti dei consiglieri, senza contare il sindaco, e viene messa in discussione non prima di dieci giorni e non oltre trenta giorni dalla sua presentazione. Se la mozione viene approvata, si procede allo scioglimento del consiglio e alla nomina di un commissario ai sensi dell’articolo 141, con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministero dell’Interno. DIMISSIONI MAGGIORANZA CONSIGLIERI – C’è poi la possibilità delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali – la metà più uno – con scioglimento dell’amministrazione, nomina del commissario ed elezioni. Tutta la procedura di scioglimento si deve concludere entro 90 giorni. Lo scioglimento del Consiglio comunale determina in ogni caso la decadenza del sindaco e della giunta. I consiglieri cessati dalla carica per effetto dello scioglimento continuano ad esercitare, fino alla nomina dei successori, eventuali incarichi esterni. LA DATA SPARTIACQUE – Il commissariamento durerebbe invece fino alla primavera del 2017 nel caso il sindaco si dimettesse e l’amministrazione decadesse dopo il 24 febbraio prossimo. Si voterebbe quindi nella primavera del 2017 a meno che il governo non fissi per decreto una nuova tornata elettorale negli Enti locali. IL PREFETTO-COMMISSARIO – Quanto all’ipotesi che sia lo stesso prefetto di Roma Franco Gabrielli – che è anche coordinatore del Giubileo – ad essere nominato commissario, questa non viene esclusa dalla legge, ma – sottolineano fonti della prefettura – non è mai accaduto in Italia e viene ritenuta «impossibile».

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