Addio a Franco Citti, protagonista dell'Accattone di Pasolini | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Addio a Franco Citti, protagonista dell’Accattone di Pasolini

Per tutti era Cataldi Vittorio, detto Accattone, l’incarnazione rabbiosa dei «ragazzi di vita» pasoliniani. E ribelle, selvaggio, vitale e inquieto Franco Citti sarebbe sempre rimasto, dal giorno della sua nascita (23 aprile a Roma), fino ad oggi, sempre nel ventre scuro della sua città. Da anni era bloccato sulla sedia a rotelle in seguito a tre ictus ripetuti, ma non voleva lasciare la vita, si attaccava al fuoco che sentiva dentro, solo velato dalla saggezza del tempo e dalla solitudine crescente per i tanti amici lasciati per strada: Pasolini, Betti, Cerami, suo fratello Sergio. Del gruppo scandaloso e felice che circondava Pier Paolo Pasolini tra i suoi esordi letterari e la scoperta del cinema resta ormai solo Ninetto Davoli, forse quello che meglio ha saputo prendere i cambiamenti del tempo per il loro verso. La sua strada incrociò quella del poeta-professore all’inizio degli anni ’50 quando Pasolini, lasciata Casarsa con la madre, insegnava a Roma in periferia e si circondava di un piccolo cenacolo di poeti di strada, alcuni allievi diligenti (come Cerami che del gruppo era il più piccolo), altri già avvezzi alla durezza della vita (il diciottenne Sergio Citti era appena uscito dal riformatorio), altri come Sergio in bilico tra l’adolescenza e la rabbia. Per tutti Pasolini diventa un punto di riferimento, scopre in Sergio un «maestro di vita e di lingua», si affeziona a Franco fino a trasfigurarlo nelle sue pagine da narratore. Con loro gioca a pallone, parla di letteratura e di umanità, si costruisce una sorta di famiglia fatta di calore, umanità, libertà, un guscio protettivo che lo accompagnerà sempre, dai giorni dello scandalo per i romanzi messi all’indice fino alle polemiche incessanti che ne scandiranno la carriera e la vita. «Di tutti i Citti è sempre stato l’anima più libera – dice oggi un amico e allievo come il regista David Grieco -, ha sempre vissuto a modo suo, senza compromessi e senza cedimenti». E da persona libera se ne è andato, lasciando tre figli, una scia di ricordi e l’incessante passione (come del resto Sergio) per ridare onore al maestro, facendo luce sulla sua morte. Pasolini chiama Franco Citti per la sua prima regia nel 1961 e conferisce alla sua maschera tragica, già segnata e beffarda, la statura assoluta del protagonista in «Accattone». Per molti è una rivelazione e il gioco del cinema appassiona il ragazzo che, l’anno dopo, riporta sullo schermo se stesso in «Una vita violenta» di Paolo Heusch e Brunello Rondi. L’impronta del maestro guida anche la recitazione di Franco Citti che, autodidatta assoluto, costruirà una carriera densa di incontri (alla fine saranno 55 i suoi ruoli per lo schermo) e uno stile interpretativo unico, fortemente radicato nella lingua vernacolare, istintivo nell’amore per la macchina da presa (un amore ricambiato sempre, con primi piani di rabbiosa intensità) e sempre diretto fino a fare della spontaneità il suo tratto distintivo. Per «Mamma Roma» del ’62 Pasolini lo richiama e così sarà per «Edipo Re», «Porcile», «Decameron» e gli altri due episodi della «Trilogia della vita». Ma il cinema dei Citti scrive anche una storia parallela perchè il fratello Sergio lo coinvolge nel suo film di debutto, «Ostia» (1970) e poi, insieme a Cerami, nei successivi «Storie scellerate (1973), »Casotto« (1977), »Il minestrone« (1981), »I magi randagi (1996) , fino a firmare a quattro mani quei «Cartoni animati» che nel 1997 chiudono idealmente l’arco dell’eredità pasoliniana sullo schermo. Intanto Franco Citti cammina anche da solo, ricercato per cinema di genere («Requiescant» di Carlo Lizzani nel 1967), cinema d’impegno («Seduto alla sua destra» di Valerio Zurlini, 1968), incursioni internazionali («Il Padrino » di Coppola nel 1972). Raccontava lo stesso Citti che, alla notizia, Pasolini gli raccomandò: «Vai e divertiti, ma non perdere la tua lingua, perchè se perdi quella smarrirai te stesso». E il romanesco, quello delle borgate, quello che non si piega al gergo generazionale e conserva la sua immediatezza oltre le mode, rimarrà sempre il modo espressivo dell’attore Citti, chiamato da Fellini per «Roma», da Petri per «Todo modo», da Ferreri per «Yerma», da Bertolucci per «La luna», da Maselli per «Il segreto», fino all’ultima apparizione, in «E insieme vivremo tutte le stagioni» di Gianni Minello nel 1999. Nel 1992, insieme a Claudio Valentini, si racconta in una sorta di autobiografia impressionista, «Vita di un ragazzo di vita» edito da SugarCo. La bocca piegata in una smorfia amara che si illuminava nel sorriso, gli occhi lunghi, quasi arabeggianti, il ciuffo ribelle dei capelli che l’età aveva seminato di neve, il «baby» di whisky a portata di mano, la sigaretta divorata con apparente distacco: ecco come la sua immagine resta impressa nel ricordo. E in quello sguardo da poeta triste, da Rimbaud delle borgate, rivive oggi un’intera epoca. Forse la sua morte assomiglia al suo estremo gesto di libertà. Oggi Franco Citti si alza dalla sedia a rotelle e ricomincia a camminare.

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