Evasi da Rebibbia, i due braccati: doppia inchiesta sulla fuga. Ma è polemica sulla sicurezza | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Evasi da Rebibbia, i due braccati: doppia inchiesta sulla fuga. Ma è polemica sulla sicurezza

Sul penitenziario romano si scatena un dibattito che si allarga all'intero sistema. Catalin Ciobanu e Mihai Florin Diaconescu, 33 e 28 anni, condanne da scontare per morte come conseguenza di altro reato e per sequestro di persona, non si sono ancora fatti prendere

Sono ancora in fuga i due romeni evasi ieri dal carcere romano di Rebibbia. In fuga e braccati dalle forze dell’ordine che hanno attuato posti di blocco, controlli e verifiche a Roma e provincia per fare terra bruciata attorno ai due che ieri, come in un film, hanno violato i sistemi di sicurezza del penitenziario capitolino superando ben tre sbarramenti per poi dileguarsi. E sul penitenziario romano si scatena un dibattito che si allarga all’intero sistema. Catalin Ciobanu e Mihai Florin Diaconescu, 33 e 28 anni, condanne da scontare per morte come conseguenza di altro reato (e non omicidio) e per sequestro di persona e una serie di rapine, non si sono ancora fatti prendere. Centinaia di poliziotti, carabinieri e agenti penitenziari li cercano a Roma e nel resto d’Italia anche con posti di blocco e perquisizioni. Nella capitale presidiate le stazioni, perlustrati i campi Rom dove potrebbero nascondersi e sentiti amici e conoscenti che potrebbero averli aiutati. La procura della capitale ha aperto un’inchiesta e attende il rapporto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che ha avviato un’indagine interna, responsabile delle carceri italiane, secondo il quale «c’é un eccesso di allarme e gli istituti penitenziari sono sicuri». Secondo il sindacato Sappe, ieri c’erano però solo due agenti di guardia nel reparto. Nove per 300 detenuti ieri a Rebibbia, secondo il Dap. Ma le ricostruzioni sulla dinamica dell’evasione hanno evidenziato le falle nel sistema di sorveglianza, secondo alcuni sindacati di dovute al sovraffollamento di detenuti rispetto alla scarsità di agenti e alle regole. In particolare la cosiddetta sorveglianza dinamica, che lascia liberi i detenuti di girare per alcuni ambienti aperti del carcere fino a una certa ora senza essere seguiti dalle guardie. «Le informazioni provvisorie dicono che nel padiglione G11, dove c’erano circa 300 detenuti, gli agenti erano nove, tre per piano – ha detto il capo del Dap, Santi Consolo -. Dobbiamo verificare quale era l’ordine di servizio e il livello di sicurezza». E ancora: «Stiamo verificando come mai non c’è stato l’allarme, se i sistemi sono stati collocati a regola d’arte e se la manutenzione era adeguata». Ma sulle celle aperte sarebbe un errore tornare indietro, osserva Consolo. Secondo quanto accertato finora, i due romeni hanno superato tre sbarramenti; prima segando le sbarre del magazzino del reparto G11, poi calandosi con delle lenzuola dal muro esterno, alto 7-8 metri; quindi usando dei bastoni di manici di scopa uniti per issarsi e agganciare all’altro muro di cinta, di 5-6 metri, delle lenzuola a cui erano fissati dei ganci di metallo rudimentali realizzati dagli stessi fuggitivi. Calatisi dal muro di cinta, i due si sono poi arrampicati sulla rete elettrosaldata, superando così l’ultimo sbarramento. Per segare le sbarre del magazzino gli evasi potrebbero aver usato un seghetto di ferro: Diaconescu aveva a disposizione arnesi di questo tipo perché era un lavorante. I due infine si sarebbero allontanati salendo su un autobus lungo via Tiburtina. In mattinata il segretario aggiunto del sindacato di polizia penitenziaria Fns Cisl Massimo Costantino aveva annunciato che i due evasi erano stati presi in una casa a Tivoli, vicino a Roma. Poco dopo ha dovuto smentire se stesso dopo che la notizia non era stata confermata da carabinieri, polizia e procura. – È polemica sulla sicurezza nelle carceri dopo la doppia evasione a Rebibbia, un caso che allunga una lista di 17 fughe tra il 2013 e il 2015. Ad alzare il tiro i sindacati di polizia penitenziaria, che denunciano una pesante situazione di sottorganico. Proprio nel carcere romano, con i suoi 1.400 detenuti, gli agenti dovrebbero essere 992, ma tra carenze e distacchi negli uffici sono 750, fa sapere Fp-Cgil: 240 in meno. E spesso un solo agente vigila su 170 persone, dice il sindacato, puntando l’indice anche sulle scarse risorse per la manutenzione: 4 milioni l’anno per tutte le strutture quando ne servono 40 e solo 24mila euro per Rebibbia. Uno stato di cose messo in luce da tutte le sigle: dalla Fns Cisl, che invita ministro della Giustizia e governo a porre il problema carceri tra le priorità, all’Osapp, che descrive Rebibbia come un «colabrodo»; al Sappe, che parla di 7mila agenti in meno su base nazionale, alla Uilpa, che chiede «uomini e mezzi» per «tappare le falle» e citando dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), segnala un numero di reati raddoppiato dietro le sbarre (983 casi nel 2013, 1.812 nel 2015) e un forte aumento di risse e aggressioni. Dap e governo si difendono. Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, sottolinea che «le nostre carceri sono tra le più sicure d’Europa» e quelli accaduti «sono fatti gravi, ma isolati». Il capo del Dap, Santi Consolo si dice «consapevole della necessità di risorse e personale». Ma c’è «un eccesso di allarme per l’evasione di due detenuti, che non deve creare paura nella collettività: i nostri istituti sono sicuri». Cansolo riferisce che dalle «informazioni provvisorie, nel padiglione G11 di Rebibbia, dove c’erano circa 300 detenuti, gli agenti erano 9, tre per piano». E non elude il nodo dei sistemi di allarme da «potenziare»: a Rebibbia si sta «verificando come mai non c’è stato l’allarme, se i sistemi sono stati collocati a regola d’arte e se la manutenzione era adeguata». Qualcosa, quindi, non ha funzionato. Ed è più in generale la dinamica dei fatti a sollevare interrogativi: le sbarre di un locale adibito a magazzino segate, forse con un seghetto a ferro a disposizione di uno dei due evasi che era un ‘lavorante’ e svolgeva interventi di manutenzione in carcere; le lenzuola per calarsi a terra lungo un muro di 7-8 metri; ganci rudimentali legati alle lenzuola e montati su bastoni realizzati con manici di scopa usati per arpionare il muro esterno di cinta e scavalcare altri 5-6 metri di altezza. L’arrampicata sull’ultimo ostacolo, la rete elettrosaldata, prima di imboccare la strada e infilarsi, probabilmente in un bus. Oggi a Rebibbia emerge poi un altro episodio inquietante, denunciato dall’Osapp e confermato dal Dap: in una cella, dove è detenuto un soggetto considerato vicino al clan Fasciani, è stato trovato un cellulare.

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