Ottant’anni fa moriva Gabriele D’Annunzio - Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Ottant’anni fa moriva Gabriele D’Annunzio

dannunzioIl primo marzo 1938, cinque minuti dopo le venti, Gabriele d’Annunzio moriva al suo tavolo di lavoro dopo aver chiesto, con una estrema espressione lirica, “un calice di acqua pura”.

Aveva 75 anni, essendo nato a Pescara il 12 marzo 1863. Sua madre Luisa de Benedectis aveva sposato Francesco Paolo Rapagnetta che si “sbarazzò” dello “sgradevole” cognome assumendo quello degli zii adottivi: D’Annunzio.

Il padre Francesco Paolo, come il figlio Gabriele, fu un dissipatore del patrimonio familiare ed un grande amatore del gentil sesso, dei cavalli e dei cani.

Gabriele, unico maschio, era coccolato dalla madre e dalle tre sorelle che lo trattavano come un principe. A undici anni lasciò la casa materna per proseguire gli studi nel Collegio Cicognini di Prato. Il padre sognava per lui un avanzamento sociale e culturale. Rimase a Prato sette anni e lasciò il collegio con giudizi eccellenti.

Nel 1879 pubblicò la sua prima raccolta di poesie: “Primo Vere”. A tal proposito commentava: C’è dentro tutta la mia anima ardente, un’esuberanza di sentimento, che si espande in inni procaci…” Tanto procaci che il Rettore del Collegio Cicognini ritenne che l’allievo fosse meritevole di espulsione per le licenze erotiche di quei versi poetici. Lo “scandalo” finì nel nulla ma la fama del giovane liceale varcò i confini del Cicognini.

Le donne furono fino agli ultimi anni croce e delizia della sua vita. Il primo amore fu una giovane di nome Elda, figlia di un professore del Cicognini. Si chiamava in realtà Gisella, ma Gabriele “ribattezzerò” tutte le donne da lui amate.

Con il diploma liceale D’Annunzio raggiunse Roma per iscriversi alla Facoltà di Lettere senza però conseguire la laurea. A Roma fu attratto, anzi distratto, dalla frequentazione di importanti salotti e donne di gran fascino. E sempre nella Capitale i suoi scritti vennero contesi dagli editori delle più prestigiose riviste.

L’editore Angelo Sammaruga impresse una svolta sul gusto e il costume dei romani. Decise di stampare una rivista chiamata “Cronaca bizantina” a cui collaboravano i nomi più in vista del giornalismo: Edoardo Scarfoglio, Eduardo De Amicis, Matilde Serao, Lorenzo Stecchetti alias Olindo Guerrini.

Gabriele d’Annunzio si guadagnò non solo l’ammirazione per le sue doti letterarie, ma anche le simpatie della redazione: “Piccolino con la testa riccioluta e gli occhi dolcemente femminili” lo descriveva Scarfoglio, aggiungendo: “Egli era così mite ed affabile e così modesto, e con tanta grazia sopportava il peso della sua gloria nascente, che tutti accorrevano a lui per una spontanea attrazione d’amicizia…”

L’uomo d’Annunzio era alto soltanto un metro e sessantaquattro, il naso un po’ grosso, la fronte alta e gli occhi grigi, la barba e i baffetti biondicci ma affascinava le donne con la sua eloquenza poetica. Scriveva al padre nel 1882: “Sono in vena di frequentare la società”. Frequentò il palazzo D’Altemps, nei pressi di piazza Navona, e qui fu travolto dall’amore per Maria D’Altemps che sposò poco dopo.

Si rifugiò a Pescara con la giovane sposa perché già i creditori cominciavano a reclamare il rientro dei debiti. Ebbe due figli dalla moglie ma quando rientrò a Roma, incontrò un nuovo amore: Elvira Fratemoli che ribattezzò subito Barbara o Barbarella. Fu una passione che ispirò, come altre donne mai, Gabriele: dal “Trionfo della morte” alle “Elegie Romane” al “Libro segreto”.

Ma non solo le relazioni amorose lo coinvolsero emotivamente: viveva anche con grande passione gli avvenimenti della nuova politica urbanistica che demoliva le ville patrizie ed i borghi medievali e rinascimentali   definendo questi anni vandalici “un vento di barbarie” e difese senza risparmiarsi i monumenti, le chiese, le abbazie. Quando crollò, per cause naturali, il Campanile di San Marco a Venezia, nel 1902, ne soffrì talmente da scrivere: “Da ieri sera non riesco a vincere la pena che mi riempie di lacrime gli occhi”.

Nel 1895 iniziò quel sodalizio “storico” con Eleonora Duse. Gabriele dopo tanti vagabondaggi amorosi ebbe una venerazione, pienamente ricambiata, per lei. L’attrice affittò nel 1897 una villa a Settignano (Firenze) un anno dopo Gabriele affittò una villa vicino all’amante chiamandola “La Capponcina”.

Ma anche questo amore ebbe termine, nel 1904, quando l’attesissima prima teatrale di D’Annunzio andò in scena a Venezia: “La figlia di Iorio” interpretata dalla bella Irma Gramatica.

Ma ecco che la nuova fiamma del poeta diventa la Marchesa Alessandra Starabba di Rudinì, figlia del Presidente del Consiglio!

1914: scoppia la Prima Guerra Mondiale. Il 30 settembre D’Annunzio pubblica sul “Journal” un appello al popolo italiano incitandolo all’alleanza con la Francia contro l’odiato mondo tedesco. Vinta la campagna interventista Gabriele D’Annunzio, ormai per tutti il “VATE”, cerca e vuole il battesimo del fuoco e viene arruolato come Ufficiale dei Lancieri di Novara e poi passerà alla nuova arma: l’Aeronautica. Ha 52 anni!

Tra un’impresa di guerra e l’altra riceve le amanti! Di ritorno da una missione, l’aereo fu costretto all’ammaraggio con un impatto violento e il poeta sbatté la testa ferendosi alla tempia e all’occhio destro. Recuperate le forze fisiche ma non la vista (si nominerà “l’orbo veggente”), continuarono le sue azioni: ben tre raid notturni sulle basi austriache di Pola, il famoso sorvolo di Vienna dove lanciò non bombe ma volantini patriottici e poi partecipò nel febbraio del 1918 alla famosa “Beffa di Buccari” superando le barriere austriache e lanciando tre siluri. Purtroppo, la vittoriosa guerra deluse tante speranze italiane che a Versailles trovarono un’inattesa ostilità degli alleati che assegnarono Fiume alla Croazia. Così alle 11.45 del 12 settembre 1919, il VATE entrò a Fiume con i suoi legionari. Il 25 settembre il Consiglio della Corona respinse ogni ipotesi di annessione di Fiume. Ma D’Annunzio, il Comandante, annunciò che la resistenza sarebbe durata “fino all’ultimo tozzo di pane e fino all’ultima goccia di sangue”.

Le proposte del Comandante, per regolare la vita civile del popolo fiumano, concordate con il Sindacalista socialista Alceste de Ambris, furono redatte nella Carta del Carnaro (1920) ovvero la Costituzione a garanzia della democrazia del Governo Rivoluzionario di Fiume che reggeva il nuovo Stato chiamato Reggenza Italiana del Carnaro.

La Carta era nel suo contenuto estremamente anticipatrice e moderna contenente l’essenza del socialismo radicale. Infatti, tra l’altro,
– veniva stabilita la parità dei sessi e ogni cittadino era elettore ed eleggibile a partire dai 20 anni d’età;

– l’istruzione primaria era gratuita e faceva divieto di insegnamenti religiosi e politici nelle scuole;

– il lavoro era un diritto e doveva essere rimunerato con un minimo salariale bastevole a ben vivere;

– assistenza nella malattia, nell’invalidità, nella disoccupazione, pensione per la vecchiaia.

Inoltre, era previsto l’istituto del divorzio e molte celebrità si trasferirono prontamente a Fiume per usufruirne!

Ma c’era ancor di più: “Lo Stato non riconosce la proprietà privata come il dominio assoluto della persona sopra la cosa”.
Queste aperture ancor oggi possono apparire di grande spregiudicatezza. Dopo sei mesi di occupazione molti cittadini si convinsero che il nuovo Stato non poteva durare a lungo poiché la situazione finanziaria era già insostenibile e gli approvvigionamenti scarseggiavano in maniera preoccupante. Il 20 dicembre 1920 D’Annunzio ricevette l’ultimatum di accettare il trattato di Rapallo che riconosceva Fiume città indipendente, ma rifiutò dichiarando guerra all’Italia. Le conseguenti cannonate della marina italiana vinsero le residue resistenze. Quella melanconica conclusione creò il mito dell’uomo audace sintetizzato nelle sue parole d’ordine “Oltre! Più oltre! Ulterius!” e “Memento Audere Semper”.

Fiume rimase città indipendente fino al 15 marzo 1924. In tale data, celebrandosi la sua annessione all’Italia, Vittorio Emanuele III conferì al D’Annunzio il titolo di Principe di Montenevoso (oggi territorio sloveno).

Un titolo nobiliare che sembrerebbe forgiato dalla fantasia dello stesso poeta la cui parola, l’estro, l’eccentricità, l’esclusività semantica e l’illimitata immaginazione ne fece un inimitabile creatore della espressione linguistica e della vita “vissuta”.

Infatti, la sua produzione letteraria è tuttora studiata dai critici letterari. Ormai anziano il Vate scelse il motto nobiliare “Immotus nec iners” (Fermo ma non inerte).

Deluso e amareggiato il poeta trovò rifugio ideale nella sua villa sul Lago di Garda “Il Vittoriale”. Doveva essere una sistemazione provvisoria, divenne definitiva. La politica sembrava un capitolo chiuso ed una settimana prima della marcia su Roma scrisse che intendeva star lontano dalla politica dove “imperversava la menzogna e dedicarsi soltanto alla scrittura”.  Verso il fascismo, nonostante le generose elargizioni periodiche (i debiti erano una sua costante), mantenne un atteggiamento più critico che produttivo e gli piacque atteggiarsi a “Comandante della Pace”

 

Stefano Boeris

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