Cucchi, battaglia legale contro il ministero. La sorella Ilaria: "Per fermarmi devono uccidermi" | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
Direttore responsabile Giovanni Tagliapietra

Cucchi, battaglia legale contro il ministero. La sorella Ilaria: “Per fermarmi devono uccidermi”

Il presidente della Corte d'Appello risponde alle accuse: "Il giudice deve accertare i fatti. Stop gogna mediatica". L'avvocato della famiglia: "Risarcimento non in discussione"

– «Il ‘caso Cucchì non finisce qui». Così Fabio Anselmo, legale della famiglia: «Ora aspetteremo le motivazioni della sentenza per preparare il nostro ricorso per Cassazione ma intraprenderemo anche un’azione legale nei confronti del ministero» della Giustizia, «affinchè si possa riconoscerne la responsabilità rispetto alla morte di Stefano». Secondo la difesa della famiglia Cucchi da entrambi i processi emerge che comunque un pestaggio nelle celle del Tribunale c’è stato e quindi si chiama ora in causa il ministero della Giustizia affinchè riconosca la sua responsabilità dal punto di vista di un risarcimento danni. La famiglia di Cucchi, nelle more del processo d’appello, ha già ottenuto un maxi-risarcimento da un milione e 340mila euro frutto di una accordo-transazione con i legali dell’ospedale dove Stefano morì; tant’è che nel giudizio d’appello non erano costituiti contro le parti mediche. E adesso la notizia della volontà di intraprendere un’azione legale nei confronti del ministero. «Io non critico la sentenza – commenta il giorno dopo l’avvocato Anselmo – Non posso fare a meno di ricordare che già durante l’udienza preliminare avevo previsto questo esito. Adesso abbiamo una sentenza che certifica l’insufficienza di prove su tutto: sugli autori del pestaggio e sulle singole responsabilità di medici e infermieri. La fragilità e le imbarazzanti contraddittorietà della perizia disposta dalla Corte di primo grado mai avrebbero potuto reggere a un vaglio severo e giusto da parte dei giudici di seconda istanza».L’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ribadisce la volontà, già anticipata ieri, di ricorrere in Cassazione. «Durante questo faticosissimo percorso giudiziario – spiega – abbiamo acquisito ulteriori elementi che potranno diversamente orientare la prosecuzione del processo. Abbiamo avuto al nostro fianco, pur nella diversità delle nostre posizioni, una Procuratore generale libero ed affamato di verità e giustizia. Auspichiamo che il suo ufficio faccia ricorso per Cassazione. Noi ci saremo. La Suprema Corte è senz’altro la miglior sede per poter far valutare la nostra richiesta di annullamento della sentenza». Le lacrime e la rabbia di ieri lasciano oggi il posto alla determinazione, «mi devono uccidere per fermarmi». È ripetendosi queste parole che oggi si è svegliata Ilaria Cucchi, all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Anzi, Ilaria va oltre: «Mi sono svegliata con l’idea che in realtà abbiamo vinto. L’assoluzione per insufficienza di prove non è il fallimento mio o del mio avvocato, ma il fallimento della Procura di Roma». È combattiva e propositiva, questa donna magra e minuta. Non si è mai arresa, e non lo farà adesso. Parla dei prossimi passi che farà con l’avvocato, «il ricorso in Cassazione e anche la Corte europea. Non è finita qui. Se lo Stato non sarà in grado di giudicare se stesso, faremo l’ennesima figuraccia davanti alla Corte europea». Ma una cosa la mette subito in chiaro: «Chiederò al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone – annuncia – di assicurare alla giustizia i colpevoli della morte di mio fratello, perchè due sentenze hanno riconosciuto il pestaggio e lo Stato italiano non può permettersi di giocare allo schiaffo del soldato, come ha detto in aula ieri il mio avvocato. Mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro». È un fiume in piena Ilaria Cucchi: «Tante volte ho attaccato il lavoro dei pm e sono stata molto criticata per questo, anche in aula dai difensori. Oggi ho l’ulteriore prova che avevo ragione». A Stefano il Comune di Roma vuole intitolare una via o una piazza, come ha indicato una mozione approvata alcuni giorni fa dal Consiglio comunale all’unanimità: «È un gesto che apprezzo tantissimo – commenta Ilaria – e ringrazio il gruppo di Sel e i tanti che sono dalla nostra parte. Ma il mio grazie va anche al sindaco Ignazio Marino», che ieri si è detto «senza parole» pur rispettando la sentenza. Non porta rancore, «non ce l’ho con i giudici di appello – conclude Ilaria Cucchi – ma adesso da cittadina comune mi aspetto il passo successivo e cioè ulteriori indagini. Sono molto motivata». Il maxirisarcimento da un milione e 340mila euro ottenuto dalla famiglia Cucchi e frutto di una accordo-transazione con i legali dell’ospedale dove Stefano morì è intoccabile, anche alla luce della sentenza di ieri che ha assolto i medici dell’Ospedale Pertini, condannati in primo grado. A chiarirlo è l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi: «Si tratta di una fase tombale, che nessuno potrà intaccare. Durante questo percorso – ricorda – ho portato e convinto la famiglia ad accettare un importante risarcimento da parte dei sanitari che non può che essere considerato come una vera e propria responsabilità, e grave, dell’ospedale Sandro Pertini sul trattamento riservato al povero Stefano Cucchi. Adesso ci rivolgeremo al ministero per ottenere anche la sua dichiarazione di responsabilità». Polemiche, accuse e controrepliche al vetriolo. È una giornata rovente quella che segue la sentenza con cui la Corte d’Appello di Roma ha assolto per insufficienza di prove tutti gli imputati nel processo Cucchi, il geometra romano morto nel 2009 dopo essere stato arrestato per droga. Il presidente della Corte d’Appello, Luciano Panzani, difende l’operato dei giudici ribadendo la mancanza di prove e invita ad evitare la «gogna mediatica». «Il giudice penale – spiega – deve accertare se vi siano prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere». La famiglia Cucchi, invece, prepara un’azione legale nei confronti del ministero della Giustizia, mentre Ilaria, la sorella di Stefano, non molla. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice. Da parte dei sindacati di polizia arriva un nuovo duro commento, sulla falsariga di quello diffuso ieri dal Sap. «Se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure – scrive il Coisp – si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». Intanto il sindaco di Roma, Ignazio Marino, conferma che il Campidoglio è al lavoro per intitolare una strada o una piazza a Stefano Cucchi, decisione che ieri era stata osteggiata dal Sap. La vicenda Cucchi, dunque, è tutt’altro che chiusa. I legali della famiglia – che oggi hanno di nuovo criticato l’andamento del processo di primo grado con le «imbarazzanti contraddittorietà della perizia» che mai avrebbero potuto «reggere a un vaglio severo e giusto da parte dei giudici di seconda istanza» – attendono le motivazioni della sentenza per poi preparare il ricorso in Cassazione e chiederne l’annullamento. L’altro passo sarà un ricorso alla Corte Europea. Nel frattempo, annuncia però l’avvocato Fabio Anselmo, «intraprenderemo anche un’azione legale nei confronti del ministero affinchè si possa riconoscerne la responsabilità rispetto alla morte di Stefano». Secondo la difesa, infatti, da entrambi i processi emergerebbe che comunque un pestaggio nelle celle del Tribunale c’è stato e quindi si chiama ora in causa il ministero della Giustizia affinchè riconosca la sua responsabilità dal punto di vista di un risarcimento danni. Una linea dura, che fa il paio con quelle di Ilaria Cucchi che definisce la sentenza d’appello come «il fallimento della procura di Roma». «Non ce l’ho con i giudici di appello – afferma – ma adesso da cittadina comune mi aspetto il passo successivo e cioè ulteriori indagini, cosa che chiederò al procuratore capo Pignatone. Mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro». Critiche alla sentenza d’appello sono arrivate anche dal mondo dello spettacolo, da Saviano a Fedez, e da diversi esponenti politici, con il Movimento 5 Stelle tra i più severi. «I cosiddetti servitori dello Stato – afferma la senatrice Barbara Lezzi – sono l’ulteriore vergogna di un Paese che non merita neppure che le istituzioni richiamino all’onore del silenzio coloro che dovrebbero garantire tutela e sicurezza ma che preferiscono coltivare autoreferenzialità». Dal Nuovo Centrodestra Fabrizio Cicchitto, presidente della commissione Esteri della Camera, parla di «triplice sconfitta: per la magistratura, per le istituzioni e per la civiltà del nostro Paese». Il pentastellato Vito Crimi, infine, propone l’introduzione del reato di tortura e l’adozione di «sistemi di identificazione certa degli agenti in servizio».

email

Bisogna effettuare il login per inviare un commento Login