Ian Anderson e la storia dei Jethro Tull | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Ian Anderson e la storia dei Jethro Tull

Un viaggio in cinquant’anni di storia del rock. Il concerto di Ian Anderson, anzi il suo spettacolo, spazia dagli ultimi esperimenti del flautista di origini scozzesi ai brani più famosi dei Jethro Tull, la band di cui è stato leader per oltre 40 anni e che ha portato nell’olimpo della musica. Ora Andersen ha quasi 68 anni, ma sarebbe difficile accorgersene se non fosse per il raffronto tra la testa pelata e l’anonimo gilet con maglietta di oggi e la cascata di capelli e la camicie da figlio dei fiori degli albori, che appaiono sul maxischermo dietro il palco. Per il resto l’agilità dello showman resta invidiabile, e persistono senza tentennamenti le sue celebri esibizioni su una gamba sola. Ieri a Roma, al teatro della Conciliazione, il musicista ha chiuso le quattro italiane del tour, che lo ha visto anche a Padova, Milano e Cesena. Un concerto in due parti: prima le canzoni del suo ultimo album «Homo Herraticus», accompagnate da video, in stile cinema muto, che trasferiscono in immagini il contenuto dei brani. Si parte con la riuscitissima «Doggerland», poi via via tutti gli altri brani del concept album, che racconta le fantasie scaturite da un manoscritto sulla storia britannica. Centrale, come in tutta la sua opera, è l’inconfondibile melodia del flauto traverso, ma il resto della band è di prim’ordine: John ÒHara (tastiere), David Goodier (basso), Florian Opahle (chitarra), Scott Hammond (batteria) con il cantante/attore Ryan ÒDonnell come special guest. L’atmosfera si scalda nella seconda parte del concerto, quando alle orecchie pubblico, con una netta prevalenza di over 50, arrivano i primi successi della band, a partire da «Mother Goose» e «Bouree», il celebre arrangiamento in chiave progressive della Suite per liuto n 1 di Bach. Poi ancora due hit: «Living in the past» e «Thick as a brick, part 1». Non c’è solo il flauto: Anderson imbraccia anche l’ukulele in diversi brani, canta e duetta con ÒDonnell, tra balli e gag. Scorrono una dietro l’altra «Nothing is easy», «Cross-eyed Mary» e «Sweet dream». Poi ancora «Teacher», «Too old to rock ‘n’ roll: too young to die» e la mistica «My God», accompagnata da immagini sacre sullo schermo. Finale da brividi con «Aqualung» e «Locomotive breath».

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