Cristicchi: "Porto in scena la storia di un sogno" | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Cristicchi: “Porto in scena la storia di un sogno”

Per ora la musica l’ha «parcheggiata», come dice lui, per dedicarsi a «questa avventura incredibile» (ancora parole sue) che gli è capitata negli ultimi anni: il teatro. Simone Cristicchi torna stasera (e domani) sul palco del Teatro Tor Bella Monaca di Roma, dove è di casa, per presentare in anteprima lo studio del suo nuovo spettacolo «Il secondo figlio di Dio» (scritto insieme a Manfredi Rutelli e con la collaborazione di Matteo Pelliti), il cui debutto è previsto il 10 agosto sul Monte Labbro, vicino al Monte Amiata, in Toscana. Dopo i suoi precedenti lavori teatrali «Mio nonno è morto in guerra», «Secondo me» e «Magazzino 18», Cristicchi si confronta ora con la storia vera di David Lazzaretti, chiamato il «Cristo dell’Amiata» o il profeta di Arcidosso. Un predicatore, vissuto tra il 1834 e il 1878, che attirò intorno a sè migliaia di persone. «Ho scoperto Lazzaretti tra il 2009 e il 2010 in Maremma – racconta all’ANSA Cristicchi – e mi ha incuriosito la sua figura fuori dal tempo. Lui era un sognatore, aveva il coraggio di chi crede al proprio sogno e alle proprie idee. E per le sue idee è morto, fermato da un colpo di pistola alla testa. La sua storia è un’epopea e meritava di essere raccontata». Lazzaretti visse a cavallo del difficile processo di unificazione dell’Italia. «Un momento storico simile a quello che stiamo vivendo oggi, con la crisi, la perdita dei valori – racconta l’artista -. Il malcontento che serpeggiava tra la popolazione, con Lazzaretti – che dopo alcune visioni si autoproclamò Gesù Cristo in terra e fu quindi bollato come eretico – sfociò nell’ideazione di una comune protosocialista, un esperimento mai tentato prima in Italia. Una sorta di catto-socialismo che fu studiato anche da Gramsci. Ma il progetto – spiega ancora il cantautore, scrittore e attore – finì nel sangue perchè le idee di Lazzaretti si scontravano con uno Stato appena nato che aveva bisogno di farsi sentire e con una Chiesa che non aveva ancora messo da parte del tutto l’inquisizione. Mise in gioco se stesso per cambiare le regole imposte, la sua era una visione troppo avanti per quel tempo». Una storia che potrebbe suscitare qualche polemica, come fece già Magazzino 18, sulla storia degli esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia. «Quando scrissi quel lavoro, immaginavo che potesse suscitare qualche contrarietà, ma non immaginavo si raggiungessero i picchi di tensione che si sono raggiunti, con la polizia presente alle rappresentazioni. La politica però non c’entra nulla con un’opera d’arte. Volevo raccontare il dolore di un popolo, non fare un comizio nè riportare un libro di storia. Si utilizzano linguaggi diversi. Comunque a Magazzino 18, dopo un’accoglienza un pò fredda, si sono aperte le porte anche degli stabili. E l’anno prossimo sarà ancora in giro. Per quella che considero un’avventura incredibile». È dunque un’addio definitivo alla musica? «Non è detto, anche se ora mi sento libero dai numeri, dalle classifiche. Fare dischi è un parto, uno spettacolo teatrale anche, ma il teatro ha un’altra marcia. La musica vive di mode, a teatro la gente è più affidabile se hai una tua credibilità. Nel mio caso sono comunque percorsi che si intrecciano».

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