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Morto a Roma lo scrittore Raffaele La Capria

Raffaele_La_CapriaViveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali di un quotidiano milanese, il «Corriere della Sera». Eppure l’opera di Raffaele La Capria, scomparso lunedì 27 giugno all’età di 99 anni, era imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista. Per lui era la «Foresta Vergine» capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme». Ma Dudù, come era chiamato familiarmente, non aveva mai smesso di evocarla, amarla e spronarla a ripensarsi. In fondo non se ne era mai veramente andato. A Napoli era ambientato il capolavoro di La Capria Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), il romanzo con cui aveva vinto il premio Strega nel 1961. Un denuncia vibrante del malgoverno partenopeo era il messaggio del film Le mani sulla città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia. A Napoli e alle cause della sua decadenza civile è dedicata la sua opera saggistica più acuta e originale, L’armonia perduta (Mondadori, 1986). I funerali si terranno martedì 28 giugno alle 12 nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, in Piazza Sant’Ignazio a Roma.

Nato il 3 ottobre 1922, La Capria era cresciuto nello splendido palazzo monumentale Donn’Anna a Posillipo. Aveva vissuto gli anni della sua prima formazione sotto l’influenza fuorviante del fascismo, nutrendosi però anche di letture poco ortodosse. Poi, durante la guerra, si era ritrovato ventenne dalle parti di Brindisi «in una divisa troppo larga, con un fucile troppo antiquato, uno zaino troppo pesante, goffo e impreparato in ogni senso».

Per fortuna l’esperienza sotto le armi era durata poco: anche se la Napoli occupata dagli angloamericani era una specie di Babilonia caotica e corrotta, quella vitalità selvaggia aveva offerto opportunità e speranze a ragazzi come lui e i suoi amici più cari, molti dei quali destinati a carriere importanti: nel giornalismo Antonio Ghirelli, Tommaso Giglio, Massimo Caprara e Maurizio Barendson; nel cinema il già citato Rosi; in campo teatrale Giuseppe Patroni Griffi; in politica Francesco Compagna e soprattutto Giorgio Napolitano, futuro capo dello Stato.

Allora forte era il fascino del Pci. Ma La Capria non ne era rimasto pienamente catturato, a differenza di alcuni suoi amici. Di certo guardava a sinistra ed era rimasto assai deluso dalla stabilizzazione moderata seguita alle elezioni politiche del 1948. Ai suoi occhi Napoli era riprecipitata nella mediocrità provinciale, era tornata ad essere un «mortorio» da cui aveva preferito andarsene. Frutto del disagio avvertito allora è il primo romanzo di La Capria, Un giorno d’impazienza (Bompiani, 1952), che avrebbe avuto diverse stesure. Un prodotto ancora acerbo rispetto al successivo e ben più elaborato Ferito a morte.

Nella sua opera più importante, uscita nove anni dopo l’esordio, La Capria sperimenta una narrazione su piani multipli, che sovverte la successione temporale degli eventi, nel caleidoscopio dei ricordi che attraversano il dormiveglia del giovane Massimo De Luca (personaggio in cui l’autore raffigura sé stesso) la mattina del giorno che lo vedrà partire da Napoli per trasferirsi a Roma. Non era un romanzo facile, anche se il pubblico lo aveva gradito ed era stato tradotto all’estero.

Scorre nelle pagine di Ferito a morte il fascino della natura «disabitata dall’uomo», cioè il fondo marino dove il protagonista pratica la pesca subacquea, ma anche il dolore sordo e lancinante della delusione amorosa, l’Occasione Mancata di Massimo con Carla Boursier. E poi la spensieratezza irresponsabile di un gruppo di ragazzi e la fatalistica sonnolenza di una certa borghesia partenopea, dipinta senza sconti. Su tutto dominano, come scrisse il critico Geno Pampaloni «la straziante dolcezza di ciò che è irrecuperabile» e «il perdere di senso della vita come un velivolo che perde inesorabilmente quota».

Erano passati molti anni prima che La Capria scrivesse un altro romanzo, Amore e psiche (Bompiani, 1973), che lui stesso giudicò poi un esperimento fallito per «eccesso di intellettualismo». L’intento era usare le tecniche della psicoanalisi per evocare indirettamente dal punto di vista del protagonista una vicenda che quel personaggio stesso rimuove perché troppo dolorosa.

Da allora non erano più usciti romanzi firmati da La Capria, ma molti libri d’altro genere, spesso ibridi: i testi autobiografici di False partenze (Bompiani, 1974) e La neve del Vesuvio (Mondadori, 1988), i brevissimi racconti di Fiori giapponesi (Bompiani, 1979), gli elogi della misura contenuti dei saggi La mosca nella bottiglia (Rizzoli, 1996) e Lo stile dell’anatra (Mondadori, 2001). Quasi tutti, come ha scritto Silvio Perrella, si possono considerare nati «da una costola di Ferito a morte».

Sarebbe però un grave errore considerare La Capria un autore ripiegato sulla terra d’origine. Sin da giovane aveva dato alla sua ricerca letteraria un respiro internazionale. Appassionato ammiratore di George Orwell, durante la guerra aveva stretto un’amicizia affettuosa con l’americano Bill Weaver, futuro traduttore in inglese di molti scrittori italiani, e ad Harvard negli anni Cinquanta aveva conosciuto Henry Kissinger.

Sposato prima con Fiore Pucci, poi con l’attrice Ilaria Occhini, La Capria aveva avuto dalla prima moglie la figlia Roberta e dalla seconda Alexandra. Era stato un animatore costante della vita culturale, sulle pagine del «Corriere» e non solo. Nel 2001 si era aggiudicato il premio Campiello alla carriera e non aveva mai smesso di intervenire, finché le forze lo avevano sorretto. Non gli piaceva la televisione, detestava i talk show urlati, ma ad ottant’anni aveva cominciato a usare il computer, nel quale aveva trovato «un alleato perfetto». Restava sempre curioso del mondo e della vita: «Dobbiamo accostarci con meraviglia alle cose. Come se fosse sempre la prima volta».

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