Scuola, Gli studenti che non arrivano al diploma più del 17% | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
Direttore responsabile Giovanni Tagliapietra

SCUOLA – Gli studenti che non arrivano al diploma sono molti di più del 17% ufficiale: mancano gli esiti dei percorsi di formazione professionale regionale

libri-scolastici-scuole-superioriIl numero di alunni che lascia la scuola avendo solo conseguito la licenza media rimane altissimo: se l’Unione Europea chiede di portare al 10%, entro il 2020, il tasso di abbandono dei banchi, riferendosi a quei giovani fra i 18 e i 24 anni che si sono fermati al titolo di terza media, l’Italia rimane ferma al 17,6%. E alle superiori negli ultimi 15 anni il 31,9% degli studenti non hanno conseguito il diploma di maturità. Oggi la Fondazione Agnelli ha ricordato che “qualsiasi riflessione su come prevenire e contrastare la dispersione scolastica deve comunque partire da questo dato, che è la spia di un fenomeno in ogni caso estremamente grave e preoccupante per il nostro Paese e – nonostante i miglioramenti degli ultimi anni – resta 7 punti sopra l’obiettivo europeo del 10% e anche sopra l’obiettivo redeclinato per l’Italia al 15%”.

Sempre secondo la Fondazione Agnelli “la comprensione e la stima del fenomeno della dispersione scolastica in Italia non possono prescindere dalla considerazione degli esiti dei percorsi di formazione professionale regionale e questo è un punto decisamente problematico”. La stampa specializzata ha calcolato che se si considerano gli studenti che non lasciano i banchi “a tutti gli effetti, ma nemmeno poi raggiungono la maturità, poiché convogliati nei Cfp, il computo nazionale del 17,6%, già ben oltre la soglia indicata dall’Ue, andrebbe incrementato di altri 10 punti percentuali”.

Anief ricorda che in alcuni Paesi dell’Est, come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia dove i livelli di vita non sono paragonabili all’Italia, i livelli di abbandono scolastico si attestano attorno al 5%. Sono numeri che parlano da soli e che indicano come la politica del ridurre il tempo scuola abbia portato solo risultati negativi, ora anche in termini di mantenimento dei nostri giovani sui banchi di scuola.

Il giovane sindacato ritiene che non si possa più temporeggiare: “il nostro Paese non può più permettersi di perdere per strada 2 milioni e 900mila giovani delle superiori, come è accaduto negli ultimi tre lustri. Anche perché si tratta di ragazzi tra i 16 e i 19 anni quasi sempre destinati ad allargare il numero dei Neet, l’esercito sempre più ampio di giovani che non studia e non lavora”, ha detto Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir.

Anche perché nei territori più poveri a livello di tessuto sociale, di strutture e opportunità occupazionali, i giovani Neet diventano non di rado potenziali nuove leve al servizio della criminalità organizzata. Il sindacato rilancia quindi le azioni da intraprendere per fermare questa emorragia di giovani dalle scuole prima del conseguimento di un titolo di studio adeguato ad affrontare il mondo lavorativo.

La prima modifica da attuare è portare l’obbligo formativo a 18 anni, come saggiamente tentò di fare nel 1999 l’allora Ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Occorrono, certamente, anche fondi ulteriori, nazionali e europei, finalizzati a migliorare l’orientamento scolastico dei nostri alunni alle prese con la scelta del corso superiore. Servono poi quote di organico di personale maggiorate da destinare proprio nelle aree dove la percentuale di alunni dispersi è più alta. Il contrario, tanto per capirci, di quello che è accaduto quest’anno, con il Miur che ha sottratto docenti alle regioni del Sud, a partire dalla Sicilia, che detiene punte provinciale di abbandono superiori al 40%, continuando ad associare gli organici esclusivamente al numero degli iscritti; continuando incredibilmente ad ignorare le condizioni del territorio e al grado di difficoltà di apprendimento. La speranza è che il potenziamento delle attività di alternanza scuola lavoro, finanziato anche attraverso l’ultima Legge di Stabilità, possa servire come primo argine del fenomeno.

Per tornare a coinvolgere gli studenti a scuola serve però anche riportare il tempo scuola sui livelli precedenti alla riforma Tremonti-Gelmini del 2008. “Fino a sei anni fa – ricorda Pacifico – l’Italia deteneva dei livelli scolatici ambiti da tutto il mondo. Tagliando centinaia di ore di offerta formativa l’anno, 4mila scuole e 200mila unità di personale, tra docenti e Ata, con riflessi negativi su tutto il comparto e falcidiando i precari. Con il risultato di ridurre la qualità formativa, improvvisamente composta da un numero ore tra i più bassi dell’area Ocse”.

Il tempo scuola degli alunni, in particolare, si è ridotto al punto di farci ritrovare in fondo alla classifica internazionale: facendo sparire, con la Legge 133/08, più di un sesto dell’orario scolastico, oggi l’Italia detiene il triste primato negativo di 4.455 ore studio complessive nell’istruzione primaria, rispetto alla media di 4.717 dell’area Ocse: non solo, alle ex elementari è subentrato anche il maestro “prevalente” che svolge 22 ore, con il resto dell’orario assegnato anche ad altri 4-5 colleghi. Come quello d’inglese, che però non è più specializzato. Così si è arrivati a produrre l’attuale modello formativo, di qualità più bassa, perché l’offerta formativa non ha più una struttura propria. E lo stesso vale per la scuola superiore di primo grado, visto che i nostri ragazzi passano sui banchi 2.970 ore, contro le 3.034 dei Paesi Ocse,

“Ripristinare il numero di ore del 1998 – conclude Pacifico – comporterebbe anche la possibilità di ripristinare gli organici di sei anni fa. Comportando, in tal modo, la creazione delle cattedre utili ad assumere non solo i 150mila docenti precari previsti dalla Buona Scuola attraverso sempre i fondi stanziati con i commi 3 e 4 della Legge di Stabilità 2015, ma anche le tante decine di migliaia di precari abilitati, ma fuori delle GaE, che lo Stato continua ad utilizzare per le supplenze ma poi a considerare invisibili quando si tratta di affrontare il problema della loro stabilizzazione”.

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