Addio a Ettore Scola, ultimo maestro del cinema: nell'amarcord per Fellini il suo testamento | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Addio a Ettore Scola, ultimo maestro del cinema: nell’amarcord per Fellini il suo testamento

Se si facesse un referendum popolare per il film più perfetto del cinema italiano, forse vincerebbe lui con «Una giornata particolare» del 1977. Ettore Scola, il cui cuore si è fermato «per stanchezza», circondato da una famiglia stretta a riccio per difenderne l’intimità, custodi la moglie Gigliola e le figlie Paola e Silvia, è stato un campione assoluto del miglior cinema italiano del secondo ‘900, un maestro che detestava i titoli altisonanti, che amava l’autoironia, ma che mai ha rinunciato ad essere in prima fila nelle grandi battaglie civili ed artistiche del paese. Animatore della politica cinematografica degli autori con l’Anac, ministro-ombra del Pci con delega alla cultura nel 1989, presidente del Bifest di Bari dal 2011, alle celebrazioni per i suoi 80 anni confessava: «Per il momento non ho tanta voglia di lavorare, anche perchè diventa perfino difficile trovare il tempo: sanno che sei libero e ti cercano tutti, per le richieste più strane. Ogni paesino ha un cinema che rischia la chiusura, un festivalino che cerca di crescere, un circolo culturale. E io tutto sommato mi commuovo a sentire tanta passione, mi sembra tempo ben speso quello a fianco di giovani che credono ancora in valori e idee. Ma detesto le celebrazioni e l’enfasi, non è ancora tempo di mummificarmi». E icona immobile non sarà nemmeno adesso, perchè l’eco dei suoi film più belli tornerà presto grazie al film documento ancora inedito «Ridendo e scherzando» che gli hanno regalato le figlie, riprendendo quel testimone della memoria per la quale era tornato alla regia nel 2013 con il toccante «Che strano chiamarsi Federico», quasi un album di famiglia strettamente intrecciato al ricordo di Fellini. Nato a Trevico, in Irpinia, nel 1931, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove frequenta il Liceo classico Albertelli. Studente di legge, disegnatore e battutista sul ‘Marc’Aureliò di Ruggero Maccari e poi autore alla radio per le gag di ‘Mario Piò cucite su misura per Alberto Sordi, Scola cresce nel cinema italiano come un ‘ragazzo di bottegà. I suoi maestri sono Ruggero Maccari, Mario Mattoli, Steno, Antonio Pietrangeli ma anche Totò e Sordi. Eppure è a Vittorio De Sica che poi dedicherà il suo capolavoro ‘C’eravamo tanto amatì del ’74 ed è al neorealismo che guarderà con ‘Una giornata particolarè del 1977, scritto con Maccari da un’idea di Maurizio Costanzo, forse il punto più alto della sua collaborazione con l’amico Marcello Mastroianni che avrebbe diretto in ben nove film. Gli anni ’70 coincidono con la massima creatività dell’autore che però firma le sue prime sceneggiature già nei primi anni ’50, conoscendo successi da ‘Un americano a Romà a ‘Accadde al commissariatò, da ‘Il conte Max’ a ‘Il mattatorè o ‘La marcia su Romà che preannuncia il suo esordio dietro la macchina da presa: è il 1964, il film è ‘Se permettete parliamo di donnè. Un buon successo, una sicurezza del mestiere gli consentiranno di ripetersi (‘La congiunturà e ‘L’arcidiavolò), ma è nel ’68 che, grazie alla garanzia di Sordi, firma il suo primo successo popolare con ‘Riusciranno i nostri eroì. I vizi degli italiani sono in mostra, l’approccio è diverso da quello dei Monicelli e Risi, una vena di malinconia e di solidarietà per i suoi ‘mostrì. Dopo ‘Io la conoscevo benè nel 1965, dal ’69 (‘Il commissario Pepè con Ugo Tognazzi è omaggio indiretto a Pietro Germi) Scola diventa un ‘autorè a tutto tondo. Da regista ha sempre guardato con disincanto alla sua carriera, eppure film come ‘La più bella serata della mia vità da Durrenmatt, ‘I nuovi mostrì, ‘La terrazzà, ‘La famiglià scandiscono altrettanti capitoli del miglior cinema italiano in una fase storica (l’ultimo terzo del ‘900) che acuiva il declino italiano. «Non mi pare che le cose siano migliorate – commentava di recente -, anzi. Ma mi fa piacere che titoli come La terrazza o La famiglia si vedano ancora, fotografano momenti di svolta importante nella nostra vita , specie il secondo che abbraccia idealmente 80 anni di storia italiana». Ma era affezionato anche al corto contro il razzismo come ‘1947- 1997’ o al corale «Gente di Roma» che racchiudeva la sua memoria di romano d’adozione. Di Scola va ricordata l’anima di più ampio respiro europeo, che passa per titoli come ‘Il mondo nuovò (1982), ‘Ballando ballandò (1983), ‘Il viaggio di Capitan Fracassà (1990). Che la politica sia stata sempre la sua passione è facile ricordarlo scorrendo la lista dei documentari che ha firmato: da ‘Viaggio nel Fiat Nam’ fino a ‘Un altro mondo è possibilè e ‘Lettere dalla Palestinà (opere collettive dei cineasti italiani del 2002), passando per il toccante ‘L’addio a Enrico Berlinguer’ del 1984. Scola non si è mai nascosto dietro scelte di comodo, ma non ha mai sbandierato le sue passioni con un gusto della battuta sdrammatizzante che lo accompagnava in ogni apparizione pubblica. «Bisogna saper ridere di sè per ironizzare sul mondo – diceva -. Peccato che ogni anno che passa sia sempre più difficile». Era un uomo forte e robusto, il volto da antico romano incorniciato da una barba severa che negli ultimi anni si era imbiancata come la capigliatura leonina. Parlava piano con un eloquio punteggiato di battute sottili che non risparmiavano niente e nessuno, ma sempre accompagnate a una natura gentile che restituiva umanità e calore. Ha vinto a Cannes, a Venezia, per quattro volte è stato nominato all’Oscar e sulla bacheca di casa figurano 8 David di Donatello, compreso quello alla carriera ricevuto nel 2011. Ha tenuto a battesimo imprese culturali come il Festival di Annecy e quello di Bari, la Casa del Cinema (fondata dall’amico Felice Laudadio), la Festa di Roma (di cui ha presieduto la prima giuria, nel 2006). Ha vissuto tra i libri, le passioni, il disegno, la musica, senza sentirsi quel grande intellettuale europeo che era diventato. Sembra proprio un Amarcord di Ettore Scola quello dedicato a Fellini nell’ultimo film del regista, scomparso oggi: ‘Che strano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellinì (2013), film passato al Festival di Venezia nelle proiezioni speciali. Un omaggio, quello del maestro Scola, all’amico più anziano di lui di circa dieci anni attraverso un film-documentario emozionante quanto divertente. Perchè tanta emozione? Perchè la figura di Federico Fellini, a venti anni dalla morte, è del tutto attuale, un classico. E perchè ancora le immagini di repertorio utilizzate mettono in scena un mondo cinematografico italiano inarrivabile. Passano infatti sullo schermo gli esilaranti provini di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman per il Casanova. Passa Anna Magnani e lo stesso inedito Federico Fellini nel ruolo di San Giuseppe nel film L’amore. Ma la cosa più sorprendente di questo film, realizzato da Scola insieme alla figlie Paola e Silvia, che forse, non a caso, resta una sorta di testamento di Scola, è la ricostruzione davvero felliniana fatta dal regista de La terrazza del rapporto prima del regista di Amarcord e poi di se stesso con il Marc’Aurelio (giornale satirico italiano fondato a Roma il 14 marzo 1931 da Oberdan). Il loro incontro, nei primi anni Cinquanta, proprio nella redazione della rivista; le loro visite ‘di piacerè sui set dei rispettivi film; i teatri di posa di Cinecittà, il Teatro 5 e altre analogie tra i due registi (entrambi ottimi disegnatori). E poi tutto un miscuglio di fiction e immagini di repertorio con la guida di un professore (proprio come in Amarcord) che ricostruisce, come aveva detto lo stesso Ettore Scola, Fellini come un grande Pinocchio che, per fortuna, non è mai diventato «un bambino perbene». Ma in questo film che, secondo lo stesso Scola, era stato come la realizzazione di un sogno, poter realizzare un film davvero felliniano senza timore di plagio, tanti frammenti tutti da ricordare. Frasi di Fellini come «La vita è una festa, allora perchè non viverla ogni momento come tale?» o «La donna è soprattutto un pianeta sconosciuto». Le compulsive bugie sempre di Fellini che raccontava di essere fuggito a cinque anni da casa per seguire un circo. La creatività per lui era «come una malattia in cui vengo abitato», fare cinema un modo di non voler restituire l’assegno di anticipo dato dal produttore di turno.«Avesse dovuto scegliere una parola su tutte questa parola sarebbe stata: noi. Mi ha trasmesso la meraviglia della collaborazione nel nostro lavoro, della condivisione, del sostegno, il privilegio la magia di fare le cose insieme e che cose abbiamo fatto insieme, che film!»: Stefania Sandrelli è addoloratissima per la scomparsa oggi di Ettore Scola. Piange e decide di buttare giù i suoi pensieri a caldo, di provare con qualche ricordo che emerge a tenere a bada la tristezza che prova. Si sono conosciuti quasi 50 anni fa, lei ha interpretato capolavori a cominciare da C’eravamo tanto amati del 1974 e da allora non si sono persi di vista. «La tenerezza, la passione, e l’ironia di quell’ultimo bacio che ci siamo dati il dieci luglio nei giardini di Cinecittà davanti alle sue amate Gigliola, Paola e Silvia mi rimarrà sulle labbra per sempre», dice la Sandrelli che lo aveva invitato, invano, allo spettacolo teatrale con la figlia Amanda. Le strade cinematografiche di Scola e della Sandrelli si sono incrociate quattro volte e per film che hanno fatto la storia del cinema italiano: 1974 C’ERAVAMO TANTO AMATI, 1980 LA TERRAZZA, 1987 LA FAMIGLIA, 1998 LA CENA e poi nel 2003 per il documentario, sempre diretto da Scola Gente di Roma. – «Ho orrore delle sicurezze, della mancanza di dubbi, dell’autostima… se l’Italia partisse dai propri limiti invece che dalle proprie virtù, andrebbe meglio». Cominciava così Ettore Scola, scomparso oggi a 84 anni, nel documentario presentato alla Festa del Cinema di Roma in ‘Ridendo e scherzandò, realizzato dalle figlie, Paola e Silvia Scola, con Pierfrancesco Diliberto (Pif) come originale interlocutore. ‘Ridendo e scherzandò è un viaggio artistico e umano che le due autrici hanno costruito con le interviste rilasciate dal padre, classe 1931, nel corso degli anni (trovate negli archivi Luce e della Rai), i brani dei suoi film, filmini di famiglia, backstage «e quello che ci ha voluto dire dal vivo», spiegano. «Avevo sempre detto di no ai ritratti, temevo di ritrovare ciò che ho visto in quelli dei miei amici scomparsi, la retorica, la celebrazione, il rimpianto», aveva spiegato il cineasta. «Ho guardato il film per vedere se c’erano gli estremi per portare le mie figlie in tribunale – scherzò alla presentazione – . In realtà sapevo che con loro andavo sul sicuro, perchè hanno ereditato da me l’ironia, la paura della seriosità e un pò di autodisistima, benefica perchè spinge a migliorare. Io l’ho imparata negli anni da disegnatore al Marc’Aurelio (il giornale satirico ndr). A ogni nuova vignetta, idea, arrivavano critiche feroci. Ho fatto anche il mio cinema immaginando ogni volta di avere con me quegli amici a giudicarmi. La sicurezza è una brutta bestia». Invece oggi, aggiunge, «basta aprire la tv per trovare gente pienissima di autostima». Critico il giudizio pochi mesi fa sul cinema italiano di oggi? «Vive una stagione negativa, ma i rimproveri sono inutili, anche perchè è nella stessa situazione della nostra letteratura, musica, poesia. È un momento di assestamento, di pianura senza picchi. Mancano i Fellini, i De Sica, ma c’è una giovane generazione che sta facendo del suo meglio e l’Italia non è avara di scandali, furti e disonestà da raccontare». Questo è un Paese «che non si fa amare, ma bisogna farlo lo stesso, sennò non si va avanti», erano state le sue parole.

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