'Per non morire di mafia': 30 anni dopo il maxi-processo in scena al Ghione | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
Direttore responsabile Giovanni Tagliapietra

‘Per non morire di mafia’: 30 anni dopo il maxi-processo in scena al Ghione

– «Bisogna parlare, urlare, perché il silenzio è l’ossigeno che alimenta il sistema criminale e la simbiosi con i poteri politici si rafforza». Lo dice a gran voce Sebastiano Lo Monaco dal palcoscenico nei panni del magistrato Pietro Grasso. «Il silenzio -ripete in un altro passo, citando Gramsci- è il peso morto della Storia». Parole che pesano ancora di più ora che «Per non morire di mafia», lo spettacolo tratto dal libro di Grasso e Alberto La Volpe (ed. Sperling & Kupfer), torna in scena a 30 anni dalla prima udienza del Maxi processo a Cosa Nostra, che si aprì il 10 febbraio 1986 a Palermo. «Lo spettacolo – dice all’ANSA Lo Monaco, che sarà al Ghione di Roma dal 23 al 28 febbraio e poi a Urbino, Savona e Pavia – è diventato quasi un classico. È teatro civile, ma anche ‘vero’ teatro. Come fu per le tragedie greche, racconta le storie nefande di terribili delitti e bande criminali che hanno infestato il nostro tempo, la Sicilia e l’Italia». Portato per la prima volta in scena nel 2010 al Festival di Spoleto, con l’adattamento di Nicola Fano e Margherita Rubino per la regia di Alessio Pizzech, il testo è frutto anche dell’amicizia con l’ex Procuratore Nazionale Antimafia, oggi Presidente del Senato, da sempre convinto che per contrastare la mafia sia necessario avere la percezione esatta della sua pericolosità. In scena, il monologo di un uomo «contro», le riflessioni, gli interrogativi di un magistrato, amico e collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a confronto con il volto più cupo e drammatico della sua terra: quello dei morti ammazzati, dell’illegalità diffusa, dell’omertà. Un «uomo semplice, un servitore dello Stato, non un eroe – dice Lo Monaco – che mette a rischio se stesso e la sua famiglia per difendere la libertà di tutti». E che quando gli chiedono se ha paura, scrolla le spalle e sorridendo risponde che in quella vita sotto scorta ci si sente solo un po’ «meno libero». Dall’altra parte, i capi di Cosa Nostra: 360 giudicati colpevoli, tra i quali anche Toto Riina e Bernardo Provenzano, nel più grande processo penale mai realizzato al mondo, partito dal clamoroso pentimento di Tommaso Buscetta e finito con una condanna complessiva a 2 mila 665 anni di carcere. «Tra tanti boss dalla vita e dal linguaggio ‘rurale’ – racconta Lo Monaco – Buscetta si distingueva. Dopo che i Corleonesi gli uccisero fratello e figlio, diventò il primo collaboratore di giustizia. In qualche modo, un atto coraggioso, con cui si iniziò a scardinare quel sistema di silenzio e connivenza. Ma bisogna stare attenti quando si portano in scena questi personaggi – prosegue l’attore – Oggi i ragazzini in tv li vedono come eroi. Certo, è il grande western della nostra epoca. Ma è importante uno sguardo critico». Ma quanto è cambiata l’Italia in questi 30 anni dal maxi processo? «Io la vedo anche peggiorata – risponde Lo Monaco – Nonostante lo Stato abbia vinto le sue battaglie, nonostante la mafia ‘tradizionale’, quella di Riina, Provenzano e delle lupare, sia quasi debellata, il paese si è come ‘mafiosizzato’. È la mafia delle banche, dell’alta economia, dell’oligarchia degli uomini potenti, difficile da fermare e a volte anche da riconoscere. Aristotele – prosegue – diceva che la democrazia è il governo dei poveri e quindi di molti. Al contrario, l’oligarchia quello dei ricchi e dei pochi. Perché i politici di oggi sono tutti capitani d’industria, grandi banchieri, avvocati? Anche quando si va a votare, sembra che i cittadini non possano decidere niente. Ma quali 5 Stelle… – conclude – Qui sembra che la lotta di classe ci sia stata e sia stata vinta dai ricchi. È questa la nuova forma di governo ‘mafiosa»’.

email

Bisogna effettuare il login per inviare un commento Login