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VIA CRUCIS AL COLOSSEO – Due donne, una russa e una ucraina, portano la croce nella XIII stazione

Oltre diecimila persone insieme a Francesco per pregare nella suggestiva celebrazione del Venerdì Santo che torna al Colosseo, dopo due anni per la pausa del Covid

viacrucisIn un 2022 drammaticamente ferito da una guerra “crudele” e “sacrilega”, il percorso della Via Crucis che fa memoria del cammino di Cristo verso il Golgota si snoda nel crepuscolo dei Fori Imperiali, gremiti da diecimila fedeli e ravvivati dal baluginare dei flambeaux. Il buio cala presto sopra il Colosseo, dove dagli altoparlanti si diffonde la supplica universale del Papa che chiede a Dio di disarmare la mano di chi uccide e dove in mondovisione famiglie di diverso tipo e provenienza condividono, attraverso le loro meditazioni, frammenti di vita quotidiana.

Francesco rimane per tutto il tempo a capo chino e mani giunte, stretto nel suo cappotto bianco, assorto in una intensa orazione. Ogni tanto poggia una mano sugli occhi. Alle sue spalle le fiaccole illuminano l’enorme crocifisso allestito, come tradizione, sopra la collinetta dinanzi alla Basilica di Massenzio, al fianco della Via Sacra che attraversa tutto il Foro Romano fino al Campidoglio.

“Fa’ che non ci comportiamo da nemici della croce di Cristo, per partecipare alla gloria della sua risurrezione”.

Fa effetto udire la voce del Vescovo di Roma tornare a risuonare al Colosseo, dopo due anni dall’interruzione causata dal Covid di una tradizione mai sospesa dal 1964, da quando Paolo VI volle ripristinare il “pio esercizio” della Chiesa antica all’ombra imponente dell’Anfiteatro Flavio, in un itinerario che dai Fori Imperiali proseguiva fino all’Arco di Costantino. Per due anni di fila la Via Crucis si è svolta in una Piazza San Pietro desolata, alla presenza solo dei cruciferi, i portatori della Croce. Questa sera c’è invece un popolo grande a pregare insieme al Papa e insieme alle famiglie, accompagnate per le quattordici stazioni dal cardinale vicario, Angelo De Donatis, e dai vescovi ausiliari della Diocesi di Roma.

Ai piedi della Croce le famiglie pongono i loro limiti e problemi, le aspettative deluse e la fatica quotidiana di educare i figli, di condurre vite precarie, di stare lontani dal Paese d’origine, di rinunciare ai propri sogni di coppia o rimodulare la vita per la disabilità di un figlio. Problematica, questa, a cui si aggiungono pure i “giudizi ingiusti” della società o degli stessi medici. A Dio viene affidata anche la paura di non farcela fisicamente a stare dietro ai nipoti, di reggere una chemioterapia, di andare avanti dopo che il coniuge è venuto a mancare. Le voci sono quelle di nonni, giovani sposi, di genitori di tanti figli, pochi figli, figli malati o consacrati, figli defunti. Ci sono migranti, missionari, responsabili di una casa famiglia. Le loro riflessioni sono fotogrammi di vita quotidiana in cui ognuno può rispecchiarsi. Le telecamere che trasmettono la celebrazione in diretta mondiale inquadrano infatti volti commossi e partecipi, espressioni assorte, occhi lucidi sopra le mascherine.

Dalla marea umana dispiegata nel cuore dell’Urbe si eleva poi la denuncia di un conflitto, quale quello in Ucraina, che provoca terrore, povertà, squilibrio. E che diffonde nel mondo le immagini cruente di donne, madri, mogli, che partoriscono o muoiono sotto le bombe. In rappresentanza di questo orrore e della speranza di pace e di una fraternità ritrovata, sotto la croce come sul Golgota ci sono per la XIII stazione due donne, Irina e Albina, una ucraina e una russa, amiche e colleghe, che scambiandosi uno sguardo e afferrando con due mani il crocifisso ligneo, incarnano, oltre ogni polemica, l’essenza stessa del cristianesimo, di un Dio che è morto per i peccati di tutti.

Una immagine potente a cui corrisponde una pausa di silenzio. Il testo della penultima stazione è stato infatti modificato:

“Di fronte alla morte il silenzio è più eloquente delle parole. Sostiamo pertanto in un silenzio orante e ciascuno nel cuore preghi per la pace nel mondo”

“Si tratta di un cambiamento previsto che limita il testo al minimo per affidarsi al silenzio e alla preghiera”, spiega il direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni.

Il momento è toccante. Come toccante è l’esperienza di Irene e Raoul, due coniugi congolesi che portano la croce nella XIV stazione con i due figli, Federico (4 anni) e Riccardo (11 mesi). Arrivati in Italia dal Congo come rifugiati, accolti dal Centro Astalli in comunità di ospitalità, ora sono indipendenti. “Siamo morti al nostro passato”, dicono nella loro meditazione. “Avremmo voluto vivere nella nostra terra, ma la guerra ce lo ha impedito. Siamo qui dopo viaggi in cui abbiamo visto morire donne e bambini, amici, fratelli e sorelle. Siamo qui, sopravvissuti. Percepiti come un peso. Noi che a casa nostra eravamo importanti, qui siamo numeri, categorie, semplificazioni. Eppure siamo molto di più che immigrati. Siamo persone. Siamo venuti qui per i nostri figli. Moriamo ogni giorno per loro, perché qui possano provare a vivere una vita normale, senza le bombe, senza il sangue, senza le persecuzioni”.

Con un filo di voce, il Papa prende parola al termine del rito. Si rivolge al Dio che fa “sorgere il sole sui buoni e sui cattivi” e invoca la conversione di tutti, affinché mutino “i nostri cuori ribelli” e “impariamo a seguire progetti di pace”. Segue un applauso spontaneo, sovrastato dal grido di un uomo: “W il Papa”. L’invito però di questa Via Crucis è al silenzio. Quello che – come si è recitato poco prima e come diceva anche il Papa nell’intervista di oggi ad A Sua Immagine – è l’unica risposta davanti alla sofferenza del prossimo.

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