Le mani della Camorra sulla Capitale: 61 arresti, sequestrati bar e ristoranti. Sgominato il clan dei "napoletani della Tuscolana" | Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio
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Le mani della Camorra sulla Capitale: 61 arresti, sequestrati bar e ristoranti. Sgominato il clan dei “napoletani della Tuscolana”

Le indagini vanno dal 2009 al 2013. Per gli inquirenti a capo dell'organizzazione, fino al suo arresto, c'era Domenico Pagnozzi

Un connubio tra noti criminali romani e affiliati alla camorra napoletana che in pochi anni ha permesso all’organizzazione di ‘conquistarè diverse piazze dello spaccio nella Capitale, di guadagnarsi il rispetto di altri gruppi come quello guidato da Massimo Carminati e di riciclare denaro sporco in ristoranti e bar del centro storico. Una realtà criminale «autoctona» che si avvaleva della connotazione camorristica del suo capo. Il sodalizio è stato smantellato all’alba con una maxi operazione dei carabinieri del Comando provinciale di Roma che ha portato all’arresto di 61 persone indagate a vario titolo per associazione di tipo mafioso, traffico illecito di stupefacenti, usura, riciclaggio, fittizia intestazione di beni e illecita concorrenza con violenza e minacce. Sequestrati beni per un valore stimato di 10 milioni di euro tra cui 12 esercizi commerciali, 30 immobili, 20 società, 72 veicoli e oltre 200 rapporti bancari. Le indagini, condotte dal Nucleo investigativo di Roma, hanno riguardato il periodo dal 2009 all’inizio del 2013. Per gli inquirenti a capo dell’organizzazione, fino al suo arresto per l’omicidio di Giuseppe Carlino commesso nel 2001 a Torvajanica, c’era Domenico Pagnozzi, considerato elemento di spicco di una famiglia camorristica e noto negli ambienti malavitosi come ‘Mimì ò ‘professorè e ‘Ice occhi di ghiacciò. Trasferito nella Capitale nel 2005, Pagnozzi avrebbe creato un’ organizzazione gerarchica ben definita con una rete di sodali. Tanto che non tutti gli affiliati avevano la possibilità di parlare con ‘il capo supremò ma dovevano interfacciarsi con i suoi uomini di fiducia. Tra questi Massimiliano Colagrande, vicino agli ambienti della destra eversiva e finito nell’ inchiesta su Mafia Capitale, che avrebbe ricoperto il ruolo di cassiere dell’organizzazione e il compito di curare parte delle attività di riciclaggio e reinvestimento nell’economia legale dei proventi delle attività illecite. Tra i luoghi di incontri dell’organizzazione il bar ‘Tulipanò di Colagrande, tra gli arrestati di oggi, da cui trae il nome l’operazione. Si tratta di un locale, posto sotto sequestro, che si trova in via del Boschetto, nel centralissimo Rione Monti, a pochi passi dall’abitazione dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Dalle indagini è emerso che il gruppo gestiva lo spaccio di stupefacenti in diverse piazze della periferia: da Centocelle e Borghesiana, dal Pigneto a Torpignattara e che mirava ad espandersi. Ma la loro attività non si fermava qui. Ci sarebbero diversi episodi di estorsioni, usura e gravi intimidazioni per imporre il volere del clan e per recuperare crediti usurai anche per conto di terze persone. Tra le vittime di usura un imprenditore che per far fronte ai suoi debiti sarebbe stato costretto a spacciare, a cedere il suo night club e a scappare da Roma. Il sodalizio avrebbe puntato inoltre a monopolizzare il controllo della distribuzione delle slot machines in molti esercizi commerciali della zona Tuscolana-Cinecittà e si sarebbe avvalso, secondo gli investigatori, di «scambi di favori» con il clan di Michele Senese per compiere fatti di sangue. Pagnozzi e Senese avrebbero militato insieme negli anni ’80 nella federazione camorristica ‘Nuova Famiglià partecipando alla cosiddetta ‘guerra di camorrà e da allora il ‘sodaliziò tra i due non si sarebbe mai spezzato. Scambio di favori. Tra gli arrestati anche due Casamonica per episodi di estorsione.

– Si erano presi un pezzo di Roma. La parte sud, precisamente.«Questa è la Tuscolana, è tutta zona di Mimmo: siamo i napoletani della Tuscolana», dice in un’intercettazione Ferdinando Silenti, alias il Cinese, uno degli uomini di Domenico Pagnozzi, il boss del clan romano. «Mimì o professore», «Ice», «Occhi di ghiaccio», al secolo Domenico Pagnozzi, era il capo di questo pezzo di camorra capitolina, già condannato più volte per associazione di tipo mafioso e anche per omicidio nel 2005 si era trasferito permanentemente nella Capitale dove era sottoposto alla Sorveglianza Speciale con obbligo di soggiorno. Ma continuava a fare il boss e non aveva smesso di tessere relazioni con le varie anime della malavita: soprattutto col Clan Senese, ma anche con le ‘ndrine calabresi o con i più romani Casamonica. Riesce così a coagulare attorno a se un gruppo nutrito di uomini (61 gli arrestati ma ben 99 i coinvolti totalmente nell’inchiesta) e soprattutto a creare un’efficiente holding dedica alla droga, al recupero crediti, alle slot machine. Un gruppo la cui la capacità criminale viene più volte sottolineata nelle oltre 1000 pagine di ordinanza di custodia cautelare dal gip Tiziana Coccoluto e che fa balenare davanti agli occhi degli affiliati la possibilità di un deciso cambio nel tenore di vita. «Sto facendo il signore qua, alberghi, ò meglio ristorante, ò meglio albergo mi stanno facendo dormire, stiamo con l’X3, T-Max, Hornet, tenimm 3 T-max, uno sabbiato, un altro bianco come l’ultimo tipo proprio e un altro nero, un Hornet» dice uno del clan in una conversazione intercettata e promette all’interlocutore «io sto vedendo di costruire una cosa buona per noi e per te lì…». E sempre in un’intercettazione Colagrande parla di «Ferrari gialla, Ferrari rossa, la Bentley Azure Cabrio…». Accanto alle auto i ristoranti, come I Vascellari, i locali, come il Tulipano a Monti quartier generale del gruppo, attività commerciali di nicchia ma redditizie, come «Mondocane», che vende gadget per animali. L’attività principale e più redditizia del gruppo era la droga:dall’approvvigionamento alle piazze dello spaccio in zona sud. Testimonianza i libri mastri degli stupefacenti sequestrati con i nomi dei pusher, le somme di denaro ricevute o da riscuotere per lo stupefacente fornito in conto vendita. La droga viene indicata in codice: «tempestilli», «slot» ed «ivan» ovvero marijuana, hashish e cocaina. Ma il clan accresce il suo giro d’affari col tentativo di controllo del mercato delle Slot Machine («Io devo mettere le macchinette dappertutto…qua è sempre zona Tuscolana», ragiona Silenti, le operazioni di riciclaggio (attraverso i contatti diretti con Cannizzo Marco, direttore di filiale Tercas), l’uso indiscriminato della violenza per riscuotere crediti. Se al vertice c’è Pagnozzi, subito dopo c’era Massimiliano Colagrande, alias Monsignor Barba, che conosceva e rispettava Massimo Carminati, dominus di Mafia Capitale, per l’antica militanza nell’estrema destra dove aveva conosciuto Luigi Ciavardini.

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